di Leonardo Salutati • L’attenzione ai poveri, la lotta alla povertà e la scelta di povertà è una espressione di fedeltà della Chiesa alla sua missione, che si manifesta nell’impegno a promuovere la giustizia, termine con il quale nella Bibbia si intende la fedeltà di Dio all’alleanza e il suo piano di salvezza che si manifesta in Cristo e, riferito all’uomo la sua risposta all’alleanza con Dio, che si manifesta nell’impegno all’osservanza della legge, tanto che nel Deuteronomio si preciserà: «La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato» (Dt 6,25).
L’Antico Testamento
All’interno del popolo di Israele vi sono i poveri la cui presenza rivela una situazione di ingiustizia, dovuta ad una distribuzione dei beni squilibrata, che è in contraddizione col disegno di Dio. Siccome nessuno pensa ai poveri, Dio stesso si fa loro protettore (cf. Es 22,20-25). Questa determinazione di Dio precisa ulteriormente il concetto di giustizia, che è fondato sul non possesso. Noi di solito pensiamo alla giustizia in un ambito di scambio mentre la Bibbia tratta di chi ha e di chi non ha, e Dio si fa protettore di chi non ha. Tutto ciò risulta evidente da quei testi in cui Dio ispira questo senso di giustizia nei confronti di chi non ha niente, motivandolo col fatto che è Lui l’unico padrone della terra che ne può disporre a piacimento (cf. Lev 19,9-11; Dt 24,14-15). Passando ai profeti, essi vogliono prima di tutto tutelare la vera religiosità, perché il popolo aveva dimenticato il senso dell’alleanza e della fedeltà a Dio, denunciando che chi è potente perché ricco, cerca di sfruttare gli altri strumentalizzando la religione per apparire giusto (cf. Am 8,4-8). Essi richiamano all’esercizio della giustizia come risposta alla fedeltà di Dio, per contribuire alla trasformazione della terra e alla realizzazione del mondo ideale (cf. Is 11,1-9). Per i profeti l’autentica religiosità presuppone il cessare di fare il male e il soccorrere l’oppresso prima della purificazione rituale, che Dio disprezza quando si fanno sacrifici con mani grondanti di sangue umano. Dio infatti non si riconcilia con i sacrifici e gli olocausti ma attraverso l’esercizio della giustizia (cf. Is 1,11-17; 58,3-10; Am 5,21-25; Ger 7,3-7; 22,13-17). Un tale richiamo al popolo è talmente pressante che, per i profeti, conoscere Dio significa esercitare la giustizia verso il povero e vero sacrificio è aiutare chi è nel bisogno (cf. Ger 22,3-17).
Il Nuovo Testamento
Se la Torah esorta alla fedeltà all’alleanza, il Nuovo Testamento rivela che l’amore è il motivo profondo di tale fedeltà. Gesù predicherà la conversione verso il Padre e verso i fratelli manifestando il segno della sua messianicità nell’impegno verso i poveri (cf. Lc 7,22). Il testo di Matteo del Giudizio finale (cf. Mt 25,31-46) rivela che il centro del cristianesimo è riconoscere Gesù nel povero, e senso della vera fede in Dio sono le opere di bene. Con le invettive contro Scribi e Farisei che ipocritamente pagano la decima ma trasgrediscono le prescrizioni più gravi della legge quali la giustizia, la misericordia e la fedeltà, Gesù riprende l’antica tradizione chiedendo di depurare la prassi da una totale perdita di senso (cf. Mt 23,23). Il senso della parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (cf. Lc 16,19-31) non è che chi gode va all’inferno e chi geme va in paradiso, ma che i beni sono di tutti e la nostra salvezza dipende dal loro utilizzo con giustizia. Per cui la ricchezza non è cattiva come tale ma diventa cattiva in base all’uso che ne facciamo. È quanto correttamente ribadirà anche Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis (cf. SRS 28b). Allo stesso modo la parabola dell’amministratore disonesto (cf. Lc 16,1-8) rivela la scaltrezza dell’amministratore nel farsi degli amici, pur spinto dalla necessità, con una ricchezza che prima o poi verrà meno. Dietro vi è ancora il principio della destinazione universale dei beni, e la denuncia di un rapporto con i beni che si corrompe nel momento in cui essi sono considerati un possesso esclusivo, diventando occasione di peccato. Secondo quanto raccontato dagli Atti degli Apostoli, la prima comunità cristiana comprende che i beni hanno una destinazione universale e si organizza di conseguenza (cf. At 2,42-47; 4,32-35) sperimentando che là dove c’è retto uso dei beni non ci sono poveri (At 4,34). Alcuni commentatori ritengono ideale la descrizione della prima comunità cristiana fatta da Atti, tuttavia sono comunque reali le esperienze di vita consacrata che adottano le stesse modalità, riscontrabili nella tradizione cristiana fino ad oggi. Il brano, drammatico, della Lettera di Giacomo al capitolo 5 ripropone con fedeltà la logica divina riscontrata nell’Antico Testamento. Nuovamente vediamo come Dio ascolta il grido dell’oppresso e gli rende giustizia (cf. Gc 5,1-6). A conclusione di questo breve percorso biblico possiamo rilevare che i poveri sono i destinatari privilegiati dell’annuncio, anche se non in modo esclusivo. Gesù non condannerà le ricchezze ma, riprendendo il tema sapienziale (Sap 29-31; Sir 5-11; Pv 11,17), denuncia la loro pericolosità. Egli, inoltre, assume la povertà come caratteristica della sua condizione terrena, perché la povertà diventa denuncia profetica di un mondo diviso fra ricchi e poveri, rifiuto di ogni privilegio, testimonianza esplicita della sua fedeltà a Dio e instaurazione della nuova logica del Regno di Dio, basata non sulla ricerca della propria affermazione ma sul dono gratuito di sé (cf. Mt 20,26-28; Lc 22,24-27; Mc 10,42-45).