di Antonio Lovascio • Alcuni hanno dato fiato alle trombe, per annunciare che il 2015-2016 segnerà una svolta dell’Università italiana. Dopo dieci stagioni di “matricole” in discesa (venti per cento) i dati forniti dagli atenei indicano un cambio di direzione, il ritorno alla crescita degli iscritti al primo anno accademico. Almeno 9.500 studenti in più nei settanta poli (su settantasette) che hanno risposto al sondaggio fatto dal Ministero dell’Istruzione e della Ricerca,con aumenti non solo al Nord (in particolare nel quadrilatero delle “eccellenze” compreso tra Torino, Milano, Venezia e Bologna), ma pure al Sud, specialmente a Catania, Salerno e al Politecnico di Bari. Sono bastati pochi accorgimenti (molti Rettori hanno tolto il “numero chiuso” ed il test di accesso ad alcuni corsi di laurea, altri hanno abbassato le tasse per i meno abbienti alzando quelle dei rediti alti) per ottenere questa inversione di tendenza, che si accompagna ad un’altra certificazione, a prima vista interpretata come un fattore positivo anche dai più critici osservatori del Pianeta-Scuola: in un lustro sono più che raddoppiati i liceali che, grazie al Progetto Erasmus, vanno all’estero (preferibilmente in Europa, Nord America e Cina) per fare un anno di nuove esperienze in Istituti d’avanguardia per didattica e tecnologie. Il loro cammino però procede “zoppo”: con un gamba -quella degli allievi e dei loro genitori – che vuole correre per inseguire insegnanti e saperi, e quella dei docenti che tengono il freno a mano, scarsamente votati all’internazionalizzazione, poco sentita anche perché da noi questa “mobilità” transitoria coinvolge solo l’1 per cento della popolazione scolastica. Buone notizie per i laureati: più della metà dei giovani che hanno scommesso su “Erasmus”, hanno poi ricevuto offerte di lavoro dai Paesi dove hanno completato gli studi.
Segnali positivi, certo, quelli che arrivano dalla Scuola e dall’Università, ma ce ne vogliono di ben più consistenti per cambiare un Paese con la più bassa quota di laureati fra le trenta democrazie industriali, che ne spinge uno ogni dieci a emigrare anche perché il costo di aprire qui uno studio professionale o una piccola impresa è fra i più alti al mondo. Sono ben altri i parametri su cui è urgente riflettere. Prima di tutto su quelli riguardanti il rapporto tra laurea e lavoro. Infatti poco più della metà dei laureati italiani (52,9%) – soprattutto quelli che hanno scelto il percorso “breve” ideato da Luigi Berlinguer e poi riformato – risulta occupato entro tre anni dalla laurea. E’ il dato peggiore nell’Unione Europea dopo la Grecia: è quanto purtroppo emerge da statistiche Eurostat, secondo le quali la media dell’Ue a 28 Paesi è dell’80,5%. Per i diplomati la situazione è addirittura peggiore: solo il 30,5% (40,2% nei diplomi professionali). Nel complesso i giovani tra i 20 e i 34 anni usciti dall’iter formativo già sistemati in Italia secondo l’ultimo riferimento disponibile sono appena il 45% contro il 76% medio in Europa. Indietro quindi di oltre trenta punti e lontano da quello tedesco (90%) e britannico (83,2%) ma anche da quello francese (75,2%). Non è la prima volta che dall’estero arrivano analisi severe su quella che un tempo è stata la sesta economia del mondo (oggi la nona, dopo Brasile e India).
Per evitare un ulteriore lungo declino, serviranno un approccio radicale e molti anni di rincorsa, lasciati alle spalle il tunnel della Grande Crisi, ma il funzionamento della nostra economia non ha conosciuto quell’accelerazione di cui avrebbe bisogno per assorbire tanti giovani a spasso. La crescita è quasi impercettibile. Per riprendere contatto con i migliori standard produttivi dell’Occidente, l’Italia dovrebbe puntare decisamente sull’innovazione e la ricerca, per raggiungere un’ottimale “competitività”. Ma è difficile ottenerla, se il sistema scolastico-universitario è ridotto in questo stato. Come si può fare della buona ricerca se negli atenei in questi ultimi cinque anni i docenti sono diminuiti del 17 per cento, e all’incirca della stessa percentuale il personale amministrativo, mentre l’ammontare dei finanziamenti ordinari che lo Stato versa agli atenei segna una diminuzione del 22,5 % in termini reali ? E se i fondi statali per borse di studio sono fermi da dieci anni a 160 milioni annui ? E se, in sostanza, rispetto al totale della spesa pubblica il comparto universitario è quello che ha fatto segnare la maggiore riduzione del personale e della spesa stessa ? I soldi non sono tutto, è vero, però senza soldi non si fa quasi nulla. Forse, oltre a reperire maggiori risorse, il premier Renzi dovrebbe rivedere anche le politiche che hanno ispirato il Ministero diretto da Stefania Giannini, che ha distribuito stanziamenti statali ai vari atenei in misura differenziata, premiando quelli che adempivano meglio a una serie di condizioni: livello delle tasse richieste agli studenti, quantità e qualità della produzione scientifica dei docenti, livello delle attrezzature, livello di internazionalizzazione. Così sono stati ricacciati ancora più indietro gli altri, soprattutto le sedi meridionali, tra le quali non ci sono solo “cattedrali nel deserto” proliferate con l’avvento delle “lauree brevi” e la moltiplicazione delle cattedre per clientele politiche.
Ora mentre vara nuove misure per accelerare la crescita, come suggeriscono alcuni qualificati commentatori (e tra questi Ernesto Galli della Loggia,che conosce bene le falle del mondo accademico) il governo dovrebbe avviare in Parlamento una franca discussione su cosa si deve fare del sistema universitario italiano, concentrando l’attenzione sulla questione cruciale, per avere concrete risposte. Come deve essere l’Università? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo va bene, ma che fare allora delle altre, quali caratteristiche debbono avere per non essere più “fabbriche di disoccupati”? E giusto che le sedi di eccellenza siano tutte o quasi concentrate nella Pianura Padana? Infine la “domanda delle cento pistole”: si può immaginare un qualunque futuro per il sistema scolastico e universitario, riducendogli progressivamente le disponibilità finanziarie come si fa ormai da troppo tempo, gettando fumo negli occhi con l’operazione-precari? Gli sprechi sono altrove, come aveva documentato il bravo ex commissario alle spending-revew Carlo Cottarelli, forse per questo rapidamente rispedito al Fondo Monetario. La Casta Politica e le Regioni sono obiettivi che vanno assolutamente sforbiciati, se si vuole estirpare la cattiva erba del facile populismo.