di Dario Chiapetti • La teo-logica dell’incarnazione impone una riflessione sulla fede cristiana e su tutti gli aspetti, interni ed esterni, ad essa connessi che non prescinda dai fenomeni storici in cui vive e si esprime. Tra questi non si può non pensare alla globalizzazione. Tale termine fu «adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo» (Enciclopedia Treccani).
Il teologo Joerg Rieger in Globalizzazione e teologia (Queriniana, 2015) mette a fuoco proprio il rapporto di interdipendenza tra teologia e globalizzazione, al fine di una maggiore comprensione delle loro prospettive e dei loro metodi.
Globalizzazione e teologia – osserva innanzitutto l’Autore – procedono secondo due strade: dall’alto al basso e dal basso all’alto; e secondo l’esercizio di due forme di potere, duro e morbido. La tipologia di globalizzazione più diffusa, almeno nella consapevolezza collettiva, è quella dall’alto al basso per mezzo di un potere duro. Essa è assai antica: ha avuto le sue prime espressioni già con l’Impero romano. Quest’ultimo mirava a espandersi su tutta la terra inglobando le realtà che incontrava. Gli elementi “innocui” venivano fatti propri mentre «le alternative reali [al potere], come appunto quelle fornite dal cristianesimo delle origini» venivano – per così dire – “ammaestrate”. L’Imperatore si interessò quindi al cristianesimo con l’intenzione di controllarlo e orientarlo e così mantenere (e accrescere) il controllo politico sull’Impero. Non a caso i primi concili della Chiesa furono convocati, presieduti e ratificati dagli imperatori. Questo controllo non veniva esercitato solo a un livello estrinseco: si cercò di legittimare la forma di potere attraverso la teologia. Ora, il teismo classico concepiva Dio come onnipotente, impassibile e immutabile; la figura di Gesù attribuiva a sé ben altre caratteristiche: onnipotenza nel sacrificio, passibilità, dinamicità. Per questo motivo si operò lo spostamento da una cristologia dal basso, storica, soteriologico-messianica, a una dall’alto, filosofica, ontologica. Anche per quanto concerne la forma delle asserzioni teologiche si è passati dalla pluralità del canone del NT ai decreti imperiali universali. L’Imperatore avrebbe, per così dire, spinto per immettere il teismo classico nella fede cristiana facendo di Cristo un sostenitore del potere dall’alto: in questo senso è da interpretare l’affermazione circa la consustanzialità del Figlio col Padre.
A ciò si contrappone una costruttiva globalizzazione e teologia dal basso: lo stesso movimento di Gesù. Anch’esso mirava a raggiungere gli estremi confini della terra, ma procedendo attraverso la costituzione in unum di coloro che sono oppressi, generando un nuovo modo di essere nel mondo. La Chiesa corpo di Cristo chiede di non abolire le differenze (come, entro certi limiti, anche l’Impero) e soprattutto conferisce «“maggior onore alle membra inferiori” (1Cor 12,24)».
Rieger osserva però – a svelare l’esattezza teologica della formula! – come la consustanzialità del Figlio col Padre sia in realtà un’arma a doppio taglio, motivo per cui Costantino avrebbe svoltato verso l’arianesimo con il suo monarchianismo: essa introduce la relazione tra eguali, che, se estesa – ancora oltre – alla relazione trinitaria con anche lo Spirito Santo, e secondo un’oculata teologia kenotica – come risulta dalla Scrittura – porta a visioni di Dio e della realtà ben differenti.
Tra i fenomeni di globalizzazione e teologie nel contesto di un potere morbido Rieger menziona l’ellenismo, che era la tradizione delle classi agiate dell’Impero: «la divisione qui non era tanto tra “ebrei” e “greci”, bensì tra classi agiate e no». Essa, proponendo i suoi principi come universali, non fece uso del potere duro. Calcedonia confessò così la pienezza dell’umanità e della divinità in Cristo ma non spiegò cosa esse significassero, rimandando alle concezioni del teismo classico.
Anche la recente politica dei progetti di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo rientra nelle forme di potere morbido facendo però sì che alla risoluzione del problema (neanche avvenuta) della povertà assoluta non si accompagni quello della diseguaglianza sociale. Essa è supportata dalla teologia dello sviluppo e della prosperità che «evidenziano – scrive Rosario Gibellini nella prefazione – solo effetti positivi dell’esercizio del potere economico»; a queste si oppongono le varie teologie della liberazione che indicano Dio nel povero e questi diventa oggetto di attenzione.
Occorre cautela verso ogni forma di “pensiero unico”, anche se si autogiustifica come lotta contro il relativismo: esso non è capace «di realizzare una vera universalità. La sola cosa che viene realizzata è l’universalizzazione della relatività particolare»; ma, positivamente, occorre lasciarsi in-formare da una nuova visione della realtà alla luce della quale giungere a una più profonda comprensione del significato dell’altro e della pluralità.