di Leonardo Salutati • Secondo alcuni osservatori e orientalisti alla radice del jihadismo europeo che ha portato agli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi, non ci sono né la rabbia né il desiderio di rivalsa che potrebbero essere generati, ad esempio, da emarginazione e discriminazione, perché «nessuno ha discriminato i ragazzi francesi, anche di buona famiglia, che si convertono e vanno in Siria pensando di tornare per fare stragi». Piuttosto la ragione di queste e altre stragi cui si è assistito (negli Stati Uniti; in Norvegia; in Canada; in Australia) è il nichilismo, «la rivolta radicale e totale», che «in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti».
Un ulteriore movente per questa evoluzione del terrorismo sarebbe rappresentato da una crisi generazionale nel mondo musulmano che vive nel nostro continente. Infatti non vi sono stati problemi con gli immigrati musulmani arrivati nei decenni scorsi. Ve ne sono con alcuni dei loro figli, la seconda generazione, che sono nati in Europa, che parlano il francese meglio dei padri e si sono secolarizzati. I futuri terroristi, a un certo punto, in contrapposizione ai padri lasciano l’Islam e vivono all’occidentale: si dedicano al rap, bevono alcol, fumano spinelli e poi, all’improvviso, cambiano, si lasciano crescere la barba, diventano islamisti integralisti. Per questo si dovrebbe parlare non di «radicalizzazione dell’Islam», ma di «islamizzazione del radicalismo».
A questo si aggiunga le conseguenze prodotte dal pregiudizio che ha per anni guidato non solo i governi, ma anche l’opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti. Si è ritenuto infatti che se l’Islam non «si fosse riformato», se non avesse intrapreso un processo di «secolarizzazione», di «laicizzazione», non avrebbe mai potuto essere «compatibile con la democrazia». Sulla base di questo assunto l’Occidente ha appoggiato per decenni le dittature «laiche» o «secolariste» di Mubarak in Egitto, Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia, pensando che fosse meglio trattare con tiranni comunque riconducibili a un codice comune (per esempio quello del business) piuttosto che con religiosi incontrollabili. Ma ora che i dittatori sono spariti, intellettuali e politici americani, francesi, inglesi e, in parte anche italiani, sono impegnati a tempo pieno nella «ricerca affannosa» di pensatori musulmani «liberal», teologi «riformisti», islamici «moderati».
Alla luce di tutto questo non si può non condividere il monito di Papa Francesco quando osserva che: «L’estremismo e il fondamentalismo trovano un terreno fertile non solo in una strumentalizzazione della religione per fini di potere, ma anche nel vuoto di ideali e nella perdita d’identità – anche religiosa –, che drammaticamente connota il cosiddetto Occidente. Da tale vuoto nasce la paura che spinge a vedere l’altro come un pericolo ed un nemico, a chiudersi in sé stessi, arroccandosi su posizioni preconcette» (Auguri al corpo diplomatico, gennaio 2016). Il terrorismo jihadista rischia di essere il frutto maturo del nichilismo che, in questo modo, toccherebbe un nuovo drammatico traguardo nel suo precipitare dalle altezze delle filosofie del niente, più o meno sofisticate, per depositarsi non solo, come avviene da tempo, nei riti senza senso di una borghesia narcisista (il rap, l’alcol e gli spinelli di cui sopra), ma anche nella disumana scelta degli uomini bomba, che prendono alla lettera l’occidentale credenza del nulla fino a realizzarla e sbatterla rabbiosamente sotto gli sbigottiti occhi di tutti.
Al riguardo ritorna di grande attualità la lezione di Benedetto XVI a Regensburg nel 2006 che tanto fece discutere, quando constatava che il paradigma scientifico contemporaneo non consente lo spazio per «gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos», spostandoli nella dimensione soggettiva. Così facendo succede però che la “coscienza” soggettiva diventa l’unica istanza etica, che impedisce all’ethos e alla religione con la loro forza di creare una comunità, relegandoli nell’ambito della discrezionalità personale in una «condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.»
Da qui il famoso invito ad «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa», che soltanto recuperando il dialogo con la fede potrà favorire «un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno».