L’assoluzione dai peccati senza la confessione è possibile? È opportuna?
di Gianni Cioli •
Di recente mi è stata posta la seguente domanda: perché la celebrazione dell’eucaristia non potrebbe essere considerata di per sé una forma di remissione dei peccati? Più esattamente: perché non conferire all’atto penitenziale con cui inizia la messa il valore di una vera e propria assoluzione sacramentale generale per tutti coloro che partecipano al rito. Non si risolverebbero così diversi problemi?… dalla mancanza di tempo dei preti, all’imbarazzo dei penitenti… nessuno si accosterebbe più in modo indegno alla comunione.
In realtà, l’idea che la celebrazione dell’eucaristia possa essere considerata di per sé una forma di remissione dei peccati non è per niente nuova ma è un fatto già riconosciuto dalla tradizione cristiana fin dalle sue origini. Nell’ambito della riflessione teologica si discute tuttavia su quali siano le modalità con cui l’eucaristia può rimettere i peccati e sul rapporto che questa remissione debba avere con quella realizzata dal sacramento della penitenza.
Basilio Petrà nel suo libro Fare il confessore oggi (Bologna 2012, pp. 73-74) offre un punto di vista chiaro ed equilibrato sulla questione: «Nella scolastica la consapevolezza che l’eucaristia è per la remissione dei peccati è ben presente; traccia di ciò è nel concilio Tridentino (sess. XIII, Decr. de Eucharistia, c. 2: DS 1638) ove si dice che essa va vista anche come antidoto “che ci libera dalle colpe quotidiane e ci preserva dai peccati mortali”. Sempre sulla base del concilio di Trento, e sulla base della consuetudine che trova il suo fondamento biblico in 1Cor 11,28, si ritiene che nessuno possa accostarsi, tuttavia, all’eucaristia con peccato grave senza confessarsi».
Anche l’eventualità di un’assoluzione sacramentale generale dei peccati nell’ambito di un’assemblea non è affatto un’idea nuova. È un’opportunità prevista, a discrezione dei vescovi d’intesa con le proprie conferenze episcopali nazionali, laddove non sia possibile o agevole celebrare la confessione individuale, con l’impegno tuttavia, da parte di chi ha ricevuto il perdono, di «confessare a tempo debito i singoli peccati gravi, di cui al momento non può fare l’accusa» («Premesse», in Conferenza Episcopale Italiana, Rito della penitenza, Roma 1974, 32). In Italia, comunque, la Conferenza episcopale non ha per ora ritenuto necessario permettere questa modalità di celebrazione del sacramento del perdono.
Si deve prendere dunque atto che la chiesa riconosce all’eucaristia la prerogativa di rimettere i peccati ma, distinguendo fra peccati lievi e gravi, afferma la necessita di ricorrere, per questi ultimi, al sacramento della penitenza. Sebbene poi sia contemplata la possibilità di una celebrazione comunitaria della penitenza con confessione e assoluzione generale si richiede comunque di confessare individualmente i peccati gravi allorquando sarà possibile.
Anche alla luce di queste puntualizzazioni mi pare di poter rispondere che un’abolizione della confessione come via ordinaria per l’assoluzione dei peccati gravi non sia la via da percorrere per affrontare l’attuale crisi del sacramento della penitenza. Eliminare la necessità della confessione dei peccati gravi per ottenerne il perdono non aiuterebbe il cammino di conversione e rischierebbe, invece, di mascherare alla coscienza del credente la bellezza del perdono di Dio riducendolo ad un evento automatico e, in sostanza ad una «grazia a buon mercato».
La necessità di chiamare i peccati per nome allena la coscienza ad esercitare il proprio esame e a maturare progressivamente nella capacità di discernere il bene e il male.
Lo stesso imbarazzo che il penitente può sperimentare di fronte alla confessione, e che qualcuno potrebbe giudicare una ragione in favore dell’assoluzione generale, mi pare piuttosto un indicatore della serietà dei peccati “seri” che non sarebbe saggio risolvere con un indistinto “colpo di spugna”.
Infine direi che il confronto franco con il ministro della chiesa, possibile nella confessione, è la strada più opportuna per elaborare un percorso penitenziale adeguato a risanare le ferite prodotte dai peccati dentro e fuori di noi.
Sono consapevole che il sacramento in questione presenta oggi molti aspetti problematici, per esempio la difficoltà a qualificare adeguatamente la gravità dei peccati di fronte alle nuove acquisizioni antropologiche, oppure la non adeguatezza di parametri di giudizio che la prassi della confessione ha ereditato a risolvere questioni umane e tendenze sociali nuove. Tuttavia non ritengo che l’abdicare alla sfida di riconoscere e confessare i nostri peccati ci possa davvero rendere cristiani migliori.
NUMERO DI FEBBRAIO 2014