Anastasis: la morte come evento personale-comunionale. Note antropologiche a partire dalla Liturgia dell’antica Veglia Pasquale ortodossa

663 500 Dario Chiapetti
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hqdefaultdi Dario Chiapetti • Se è vero che la liturgia è l’epicentro della vita spirituale e perciò del pensare teologico del cristiano e che questi è dotato di due polmoni, se ne deduce che per il cristiano non ortodosso guardare alla Liturgia ortodossa sia di grande importanza. Propongo allora, in questo Tempo Pasquale, delle semplici note teo-antropologiche ispiratemi da uno sguardo dato alla Liturgia ortodossa dell’antica Veglia Pasquale, «l’apice degli uffici bizantini», come è stata definita da Robert Taft, noto studioso in questo ambito di ricerca teologica (A partire dalla Liturgia. Perché è la liturgia che fa la Chiesa, Roma 2004, 280).

Qualche breve dato introduttivo. La preparazione alla Pasqua, come è noto, dura dieci settimane, le Domeniche del Triódon (di cui sette di digiuno) nelle quali si fa memoria della realtà della morte a causa del peccato e della misericordia di Dio. Le solennità pasquali vanno dal Sabato delle Palme fino alla Domenica dopo Pasqua (o detta di san Tommaso). L’antica Veglia Pasquale – Vespri con le letture della Veglia e Liturgia di san Basilio – è collocata al mattino del Sabato, mentre il mattutino della Domenica di Pasqua è celebrato durante la notte, l’attuale Veglia Pasquale. L’assetto liturgico ha conosciuto un significativo sviluppo nel corso dei secoli – a volte, ahimè – come studiosi hanno mostrato (cf, oltre agli studi di Taft, anche G. Bertonière: The Historical Development of the Easter Vigil and Related Services in the Greel Church, Roma 1972).

L’antica Veglia comincia con la composizione dell’epoca di Giustiniano dei Lamenti dell’Inferno che esprime mirabilmente la concezione orientale della salvezza, ovvero, l’opera divina che è espressa dall’icona dell’Anastasis, della discesa di Cristo agli inferi (e attestata nella Scrittura in passi come Mt 12,40; At 2,24.27.31; etc.), unica immagine, insieme a quella della tomba vuota, che l’Ortodossia ha della risurrezione. Il Cristo dell’Anastasis è raffigurato al contempo come il Crocifisso (non esce dalla tomba ma vi sprofonda, è agli inferi) e il Risorto (è vivo e dona vita). Tale immagine vogliono comporre le quindici letture bibliche intervallate da cantici scritturistici della Veglia e che Olivier Clément (1921-2009) raggruppa in tre categorie: i racconti delle risurrezioni dell’Antico Testamento, delle grandi opere di Dio di creazione e ricreazione e delle profezie messianiche (cf A. Schmemann – O. Clément, Il mistero pasquale, Roma 2003, 70-83). Segue l’affondo della lettura di Rom 6,3-11 che svela l’immersione del battesimo nel mistero pasquale quale proprio discesa agli inferi di Cristo e risalita liberatrice. A tale primo movimento fa seguito un secondo, quello illustrato dal Sal 81 che invita l’uomo a liberare il misero e il povero, ossia, a partecipare della liberazione operata dal Risorto. Il brano evangelico è Mt 28, il racconto della tomba vuota, il messaggio dell’angelo, le donne mirofore, le apparizioni del Risorto, il comando del battesimo in nome della Trinità. Al momento del «grande ingresso» (la processione, lungo tutta la navata, con cui il presbitero porta i doni dalla próthesis, l’abside a sinistra dell’altare dove vengono preparate le offerte, all’altare), al posto del cheroubikón (l’inno che si canta mentre il presbitero si accinge al grande ingresso) viene recitato un antico canto proveniente dalla Liturgia di san Giacomo in cui l’immolazione, la morte di Cristo è presentata come cibo per ogni carne mortale.

Ebbene, il tema della morte di Gesù colta nella sua stretta correlazione alla risurrezione e iconizzato nella discesa agli inferi è predominante. E a ciò si collega il secondo tema, quello battesimale, ossia, la connessione tra la morte di Cristo quale fonte di vita e la morte e la vita dell’uomo. È la morte di Cristo a essere rivelata in tutto il suo valore salvifico, vivificante, risurrezionale, in quanto, non la vita rimpiazza la morte ma la morte, come atto d’amore sacrificale, trasforma la morte da condizione di isolamento, alienazione a quel medesimo modo d’essere d’amore sacrificale, e quindi in vita. Per dirla con Ioannis Zizioulas (1931), la morte vissuta dalla “Persona” (il Figlio) fa sì che essa divenga evento personale-comunionale (dal Padre per lo Spirito Santo), e quindi di vita e così di trasformazione di ogni ipostasi, che con tale morte entra in contatto, da «biologica» (mortale) a «ecclesiale» (immortale) (cf l’importante Apo to prosôpeio eis to prosôpon. Hê symbolê tês paterikês theologias eis tên ennoian tou prosôpou, in Charistêria eis timên tou mêtropolitou Gerontos Chalkêdonos Melitônos, Tessalonica 1977, 287-323). Il senso della risurrezione, il ciò che si celebra la Domenica, allora non è quello di un atto di prepotenza del Padre (o, peggio, del Figlio) che annichila la morte con la vita ma il ricevere del Figlio, nella morte-alienazione sperimentata nella sua umanità in obbedienza al disegno del Padre in favore degli uomini, il modo di esistenza personale-comunionale dal Padre, lo Spirito Santo, facendo sì che tale modo di esistenza nella morte venga comunicato agli uomini che Cristo incontra in essa.

Ecco il battesimo quale morte dell’ipostasi biologica nella morte-evento-personale-comunionale, morte intesa quindi non come annichilimento, né della morte né dell’ipostasi umana, ma come superamento, «ascesi», verso un altro modo d’esistenza, quello personale-comunionale, proprio solo di Cristo, il “luogo” dell’uomo nella Trinità, e delle altre Persone Divine. Ora, nella liturgia, in virtù del suo carattere pneumatico-simbolico-sacramentale, tale morte vivificante nell’uomo è già pienamente realizzata: la dimensione temporale rivela pienamente quella sovratemporale, o meglio, essa si rivela quale rivelazione piena della sovratemporalità che è Dio. L’azione liturgica, cioè, manifesta, in quanto in essa vi si realizza, pienamente la salvezza, l’Escatologico: l’Eschatos-nella-creazione. Nello spazio extra-liturgico, la salvezza si invera invece dispiegandosi temporalmente nella/come lunga ascesi verso il Cielo dall’Ade. Il cristiano è battezzato nella sua propria morte dalla morte di Cristo e così è incorporato in Lui, trova vita e può partecipare – vedendo progressivamente inverata la sua predestinazione ad essere conforme all’immagine del Figlio (cf Rom 8,29) – alla Sua opera sacerdotale di operare la salvezza del mondo, nel senso di incorporazione (concezione fondamentale della soteriologia chiaramente formulata anche dalla recente lettera “Placuit Deo” della Congregazione per la Dottrina della Fede). Cristo nell’ipostasi ecclesiale (e questa in Cristo) battezza le altre ipostasi biologiche con cui entra in contatto entrando con la propria morte, quale evento personale-comunionale, nella morte dell’altro, quale alienazione, e viceversa, assumendo la morte-alienazione dell’altro nella propria morte come amore sacrificale.

Ecco così qualche semplice evidenziazione del forte contenuto antropologico del mistero della morte-risurrezione di Cristo che la Liturgia dell’antica Veglia Pasquale ortodossa offre in virtù del suo cogliere l’ampia prospettiva dell’evento pasquale che riconosce il significato profondo del Sabato quale fulcro teologico dei “tre giorni” e che si estende fino alla parousia: l’uomo-Anastasis, icona della vita, icona dell’ipostasi ecclesiale.

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Dario Chiapetti

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