di Gianni Cioli • La pandemia ci ha costretti a guardare in faccia la morte e a prendere coscienza della fragilità umana. La Pasqua del Signore che celebriamo all’inizio di questo mese di aprile ci ricorda che la morte non è però l’ultima parola e che la fragilità, con l’esperienza dei nostri limiti, può divenire una risorsa se ci rammemora quello che i nostri deliri di onnipotenza ci fanno facilmente e troppo spesso dimenticare, ovvero che solo il Signore ci può salvare. Il vero problema non è tanto quello del rischio di dover affrontare la morte, bensì quello del rischio di non voler affrontare la vita, sprecandola nell’autoreferenzialità.
Per riflettere sul messaggio della Pasqua vorrei prendere in esame un’opera pittorica del Trecento fiorentino piuttosto sconosciuta: il Trittico del Maestro delle immagini domenicane. Si tratta di un piccolo tabernacolo dipinto nel quale è raffigurata nella parte centrale la Madonna in trono circondata dai santi; nell’anta sinistra è rappresentata la crocifissione e in quella destra l’apparizione del Risorto a Maria Maddalena. Un particolare che non può sfuggire all’attenzione dell’osservatore è che, mentre la scena della crocifissione fra i dolenti occupa l’intera anta sinistra, quella dell’apparizione, nell’anta destra, sormonta un’altra scena, forse di difficile comprensione per l’osservatore moderno, ma ben conosciuta da quello medievale: tre bare aperte e allineate in primo piano, con dietro un uomo che presenta e indica un documento scritto. Si tratta di una singolare variante della raffigurazione dell’incontro dei tre vivi e de tre morti, una leggenda assai in voga nel medioevo e che in alcune raffigurazioni pittoriche venne utilizzata come elemento di contrappunto alle immagini più espressive della speranza cristiana, soprattutto immagini della crocifissione e immagini mariane. Il messaggio della leggenda era
tanto semplice quanto impattante. I morti ricordavano infatti ai vivi: “noi fummo come voi, voi sarete come noi”. Mi è venuta in mente quest’opera, fra le tante altre che illustrano un’apparizione del Risorto perché le bare allineate nel dipinto mi hanno ricordato le tante bare dei morti per il coronavirus che, da un anno a questa parte, abbiamo visto con turbamento e commozione attraverso i mezzi di comunicazione. Spero che l’abbinamento di questa immagine orribile alla scena dell’incontro di Maria di Magdala con il Signore che l’aveva guarita e continuava a guarirla, ci aiuti tutti, non a rimuovere il lutto, ma appunto a guarirlo riconoscendo che Gesù è vivo e chiama anche ciascuno di noi per nome, come chiamò per nome Maria Maddalena il giorno di Pasqua (Gv 20,16). Ci chiama per liberarci dall’angoscia della morte e per guarirci dall’autoreferenzialità che ci impedisce di vivere appieno, ovvero dal peccato.
L’uomo medievale a cui queste immagini erano rivolte ha conosciuto pandemie altrettanto terribili rispetto alla nostra avendo anche meno mezzi di cura a disposizione. Ma certo aveva su di noi un vantaggio: sapeva confrontarsi meglio di noi con la morte, sapeva guardarla in faccia e sapeva convivere con la sua eventualità. Soprattutto sapeva considerare meglio di noi l’idea della morte – della la morte in genere e dell’eventualità della propria morte in specie – attraverso la memoria della morte e della risurrezione del Signore. Se vogliamo trarre fuori qualcosa di positivo da questa terribile esperienza della pandemia, dovremmo forse lasciarci un po’ insegnare dall’uomo medievale, anche – e perché no? – attraverso la forza estetica delle sue produzioni artistiche, questa capacità di abbinare le cose più belle e degne di speranza perfino alle cose più indesiderabili e dolorose.