di Stefano Tarocchi • Fra i vari anniversari che il tempo della pandemia ci ha sottratto, credo vada evidenziata la nascita nell’aprile 1720 di Antonio Martini, arcivescovo di Firenze, morto nel 1809. I suoi studi a Prato e a Pisa, dove si laureò in utroque iure nel 1748, lo portarono fino alla soglia della cattedra di diritto canonico nell’Università di Torino. Divenne invece direttore del Collegio di Superga.
Nel 1757, l’anno precedente la sua morte, Benedetto XIV, già cardinale Prospero Lambertini, arcivescovo di Bologna, pubblica un decreto che annulla il divieto di leggere la Bibbia in italiano: venivano consentite la stampa e la lettura di versioni italiane della Vulgata, a condizione che esse fossero «ab apostolica sede approbatae, aut editae cum annotationibus desumptis ex sanctis Ecclesiae Patribus vel ex doctis catholicisque viris».
Il papa si sarebbe rivolto al cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, prefetto della Congregazione del Concilio – antenata della Congregazione per il clero – , per sollecitare una traduzione in lingua italiana della Sacra Scrittura e, a sua volta, il cardinale pensò al Martini, e alla sua preparazione culturale, oltre che alla sua nativa conoscenza della lingua italiana, data dall’origine toscana. La stima del delle Lanze era condivisa anche dal conte Carlo Luigi Caissotti, Primo Presidente del Senato, poi Gran Cancelliere di Corte (Giovannoni).
Tra il 1769 ed il 1781 uscivano i volumi del Nuovo Testamento e nel 1781 sarebbe terminata la pubblicazione dell’Antico (1776-81). L’edizione del Martini venne stampata in varie edizioni, fino ad uscire con il testo latino a fronte, introduzioni storiche ed annotazioni tratte dalla letteratura patristica. Sarebbe stata utilizzata fino alla prima metà del Novecento. Martini per il Nuovo Testamento prese come base il testo greco, ma in alcuni passaggi preferì la lezione dalla Vulgata; per l’Antico Testamento, pur traducendo dalla Vulgata, ricorse a volte al testo ebraico con l’aiuto del rabbino di Firenze.
Terminata l’opera, in segno di riconoscenza, l’allora re di Sardegna Vittorio Amedeo III volle Martini vescovo di Bobbio. Mentre si recava a Roma per la consacrazione, intese rendere omaggio al granduca di Toscana Pietro Leopoldo. Questi fu colpito dalla sua personalità e lo volle alla guida della diocesi fiorentina, rimasta vacante per la morte dell’arcivescovo Francesco Gaetano Incontri. La stima del granduca intendeva favorire l’opera di riforma della chiesa in Toscana che questi aveva intrapresa. Lasciamo agli storici di professione l’approfondimento di questo complesso capitolo dell’episcopato di Martini, che si accompagna a quello del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, esponente del movimento del giansenismo.
Il 1781, anno della sua nomina ad arcivescovo di Firenze, vede anche il completamento della traduzione della Bibbia dal latino della Vulgata all’italiano: tutti possono così leggere la Parola di Dio. Questa versione, l’unica in quei tempi integralmente in italiano e riconosciuta come testo della nostra lingua dal vocabolario della Crusca, ebbe numerose edizioni fino a quella del 1907, pubblicata in due grossi volumi (Marconcini), e fu diffusa anche in ambito protestante, accanto alla celebre traduzione italiana del Diodati (la cui prima edizione fu pubblicata a Ginevra nel 1607, e che Martini non stimava molto…).
Nel 1771 Il Papa Pio VI approva la traduzione del Martini, anche se il suo successore Pio VII, che aveva scomunicato Napoleone Bonaparte, include anche la traduzione di Martini nell’indice dei libri proibiti (1811), che era stato riformato in precedenza da papa Lambertini.
Dopo due secoli di silenzio sulla questione, dobbiamo aspettare la metà del secolo scorso per riaprire la questione. È così che dobbiamo giungere fino a Papa Pio XIII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), che così si esprime: «per uso e profitto dei fedeli e per facilitare l’intelligenza della divina parola, si facciano traduzioni nelle lingue volgari, e precisamente anche dai testi originali» (§1).
È vero che negli anni ‘30 del secolo scorso c’erano state due traduzioni in lingua italiana, in particolare quella dell’abate Ricciotti, ma solamente con il papa Pacelli comincia quel processo che porterà alle più importanti traduzioni nella nostra lingua, a cominciare da quella di padre Vaccari, del Pontificio Istituto Biblico (1958) e a quella, insuperata di Fulvio Nardoni (1960) – tacciata da alcuni (per invidia?) di eccessivi fiorentinismi – , che precedono le traduzioni di Garofalo (1947-1960), a più mani, come quella di Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano (1964), che servì come base alla traduzione della Conferenza Episcopale Italiana (uscita nel 1971 e rivista nel 1974) e la traduzione curata di Settimio Cipriani, con l’aiuto di biblisti di più confessioni (1968), la “Bibbia concordata”, che tuttavia non ebbe il successo sperato.
Ma nel frattempo era intervenuto il magistero del Vaticano II, che nella Dei Verbum così dice: «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza (praesertim) a partire dai testi originali dei sacri libri» (DV 22).
Come già Pio XII parlava di traduzione «anche dai testi originali», anche il Vaticano II muove dallo stesso assunto, quasi spaventato dal timore di abbandonare la Vulgata di san Girolamo. Sebbene la Vulgata resti insuperabile – di fatto completa il processo rendere la parola di Dio alla portata della lingua comunemente usata e, non fosse altro che per l’operazione culturale che ha rappresentato – non può essere deputata a prendere il posto di una lingua sacra. Peraltro, non sappiamo neppure quali testi originali avesse a disposizione.
Al tempo stesso non ci si deve accontentare del testo stabilito da Erasmo da Rotterdam (il cosiddetto textus receptus: 1516), che fu la base dalla traduzione del monaco agostiniano Martin Lutero in lingua tedesca.
Naturalmente il lavoro da compiere sulle lingue originali dovrà tenere conto della scienza della critica testuale, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto dei testimoni testuali greci, con tutta loro complessità.
Resta l’importanza dell’arcivescovo fiorentino Antonio Martini e del prezioso lavoro che ha compiuto, che in qualche maniera anticipa un fatto a tutt’oggi imprescindibile e tuttavia mai compreso interamente in tutta la sua portata: così scrive san Girolamo nel commento al profeta Isaia: «se secondo l’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e Sapienza di Dio, e chi non conosce le Scritture non conosce la potenza di Dio e la sua sapienza, ignorare le Scritture è ignorare Cristo».