E se il profumo del pane non piacesse più? Considerazioni sul valore di famiglia e figli per i giovani

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di Stefano Liccioli · In questi giorni il Parlamento italiano ha dato finalmente il via libera all’assegno unico e universale mensile per i figli under 21 dal valore massimo di 250 euro. Una misura attesa da molti anni e che dovrebbe favorire la genitorialità, promuovere l’occupazione ed incoraggiare la natalità, in un momento come quello presente in cui il numero di nati in Italia nel 2020 è stato ai minimi storici (404 mila). Ci sono ancora delle insidie per questa legge come la definizione dei decreti attuativi o il reperimento delle coperture che ancora non sono state stanziate tutte, ma l’approvazione prima da parte della Camera dei deputati e poi del Senato è stato un passo importante.

Più o meno tutte le forze politiche si stanno attribuendo la paternità di questo provvedimento (sacrosanto e ragionevole, probabilmente tardivo), ma il merito deve essere attribuito soprattutto, a mio avviso, al Forum delle associazioni familiari ed all’impegno del suo attuale presidente Gigi De Palo. Questi, tra le altre cose, ha affermato in più occasioni che per suscitare nei giovani il desiderio di costruire una famiglia e di avere dei figli occorre far sentire il “profumo della famiglia”. In sintesi, il ragionamento è sviluppato con una similitudine con il pane: è il suo profumo che ci fa venire la voglia di mangiarlo e non conoscere nel dettaglio gli ingredienti che lo formano. Non basta dunque parlare in astratto degli elementi che caratterizzano una famiglia (l’amore, l’apertura alla vita, l’educazione dei figli) per farne apprezzare la bellezza, ma occorre offrire esempi concreti di questa bellezza che pertanto non solo è possibile, ma anche realizzabile. Si tratta di una strategia efficace, a mio parere, radicata nella convinzione che “le parole ammoniscono, ma solo gli esempi trascinano”.

Da qualche tempo mi sto però domandando se, tanto per rimanere nella similitudine, il profumo del pane piaccia ancora alle nuove generazioni. Infatti, confrontandomi spesso con adolescenti e giovani percepisco come molti di loro non considerino una priorità per il loro futuro quella di creare una famiglia e tanto meno avere dei figli. Si direbbe che non abbiano più olfatto per odorare il profumo della famiglia o che quest’ultimo sia coperto da altre fragranze.

A confermare questo mio timore ci ha pensato una recente indagine della Fondazione Donat-Cattin secondo cui solo il 32% dei giovani tra i 18 ed i 20 anni s’immagina, nel proprio futuro, in coppia con figli, il 31% si vede invece in coppia senza figli ed il 20% single senza figli. Oltre la metà dunque del campione intervistato non sogna di diventare genitore. La ricerca della Fondazione analizza anche i motivi per cui i ragazzi e le ragazze non vogliono avere figli. Quello principale (per il 27%) è il desiderio di “vivere alla giornata”, seguito (per il 12%) dalla voglia di sentirsi indipendenti e dalla preoccupazione dei costi economici per i figli (per l’11%). Altre ragioni sono il non volere responsabilità, la mancata fiducia nel futuro e nelle relazioni stabili, la priorità data alla carriera. Aggiungerei che l’esempio dato dagli adulti non è incoraggiante, in tal senso: si mettono in evidenza le rinunce ed i sacrifici fatti per i figli, dimenticando che il “sacrificio” è, etimologicamente, ciò che rende sacro quello che facciamo ed è tutto al più la “fatica dell’amore”.

Annoterei pure a margine il fatto che le gravidanze mi sembrano sempre più accompagnate da un forte carico d’ansia sia nei padri che nelle madri, dovuto, secondo me, ad una marcata medicalizzazione di questo percorso (quasi fosse una malattia) che rischia di creare troppo stress e di non favorire il mettere al mondo più bambini o bambine. E’ una valutazione quest’ultima che non riguarda ovviamente il campione considerato (giovani dai 18 ai 20 anni), ma può contribuire a spiegare il motivo per cui le coppie italiane si limitino spesso ad avere un solo figlio, incrementando così il fenomeno della denatalità.

In base a queste riflessioni possiamo concludere che se la generazione del Sessantotto ha messo in discussione il valore della famiglia come istituzione, i figli ed i nipoti di quella generazione stanno ora mettendo in discussione il valore di avere una prole e ciò ha una ricaduta ancor più nefasta sul futuro del nostro Paese rispetto al primo atteggiamento.

Per contrastare questa deriva non basta dunque il sostegno economico (comunque fondamentale) dato alle famiglie. Non basta neanche far sentire in generale il “profumo della famiglia” giacché ci sono altri odori che tentano di coprirlo. E’ necessario tornare a far apprezzare questa fragranza in un rapporto personale e di prossimità con i giovani, ascoltando le loro paure di fronte al futuro, abitando le loro domande, mostrando che la felicità non sta in modelli di vita egoistici e autoreferenziali, ma nella donazione di se stessi. Per dirlo in una parola è indispensabile recuperare la dimensione del discernimento vocazionale che era stata correttamente tematizzata nel Sinodo dei vescovi sui giovani del 2018 e che spero non sia stata archiviata una volta concluso il Sinodo.

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Stefano Liccioli

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