di Andrea Drigani · Il soliloquio viene descritto come un «colloquio tra sé e sé, nell’ambito di un momento riflessivo o meditativo» (Cfr. G. Devoto-G.C. Oli-Il dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990, p. 1820). In questi giorni, a causa della pandemia del coronavirus che ci costringe a rimanere pressochè stabilmente in casa, si può riscoprire l’importanza del soliloquio anche riguardo a tale pestilenza. Il colloquio tra me e me parte da una frase di San Paolo Apostolo che si trova nella Lettera ai Romani (8,28): «Dilegentibus Deum omnia cooperantur in bonum» («Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio»). Tali parole, di primo acchito, potrebbero apparire enigmatiche, infatti nel termine «omnia» («tutto») entra pure la pestilenza provocata dal covid-19 e ci si potrebbe domandare: come può concorrere al bene? Chi sono coloro che amano Dio? In che modo sarebbero beneficati? Mi viene alla mente un’affermazione dello scrittore Clive Staples Lewis (1898-1963): «Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Penso che ciò accada abbastanza di frequente, tutte le domande senza senso non hanno risposta». Per cercare, allora, di comprendere l’espressione paolina penso che ci si debba muovere dalla primaria considerazione che siamo «quelli che amano Dio», immersi cioè nell’amore di Dio amato sopra ogni cosa, proiettati, in quanto partecipi della natura divina, alla vita eterna: la vera vita. Per questo ancora San Paolo nella Lettera ai Romani proclama: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (8,35-39). Questa certezza ha animato da sempre l’esistenza dei cristiani, cioè di coloro che sono di Cristo, consapevoli che tutto quello accade sulla terra, ivi comprese le guerre, le devastazioni, le pestilenze, non ci impedisce di essere condotti da Dio verso il nostro ultimo fine. Dio ci guida per vie, anche misteriose, all’incontro con Lui. Il soliloquio, a questo punto, mi conduce alla memoria di Alessandro Manzoni (1785-1873) e alle sue opere. Ho trovato delle sorprendenti attualità a rileggere i capitoli XXXI-XXXV dei «Promessi sposi» per le descrizioni sulla peste e sulla della diffusione del contagio, sia per quanto concerne le considerazioni circa la «provida sventura», dal Manzoni già preannunciata nel secondo coro dell’«Adelchi». L’ossimoro «provida sventura», che mette insieme due termini contrastanti, ci aiuta, in qualche modo, a sopportare gli effetti drammatici dell’odierna ed inimmaginabile pestilenza del coronavirus, e a rammentare che «Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime» (cfr. Gaudium et Spes, n.22). Questa pandemia, con la sua virulenza, ha eliminato l’illusione di essere riusciti a debellare o cancellare ogni insidia e avversità. Ma non è così. Un’antica preghiera mariana, risalente al III secolo dice: «Sub tuum praesidium confugimus sancta Dei Genetrix; nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus; sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo gloriosa et benedicta» («Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta»). Da molti secoli le nostra storia continua ad essere segnata da pericoli e prove, ma continua pure l’incessante ed invocata protezione della Madre di Dio.