di Gianni Cioli · Il Libro dell’Esodo riporta l’episodio del vitello d’oro (Es 32,7-14), ricordando il peccato del popolo di Dio durante il cammino verso la terra promessa, alle pendici del Sinai, e l’intercessione di Mosè per stornare l’ira divina che minacciava di colpire l’intero popolo. Nell’Antico Testamento, almeno nei testi più antichi, il peccato originariamente si configura più come atto del popolo, che non come atto individuale. Empietà religiosa ed ingiustizia, abbandono di Dio e oppressione del povero, idolatria e avidità, nella Bibbia sono peccati fra loro strettamente congiunti e che, spesso, comportano conseguenze nefaste per l’intera collettività. Senza voler negare la responsabilità morale personale, credo che dovremmo tornare a riflettere sulla dimensione sociale del peccato, ovvero sulle strutture di peccato che condizionano il nostro vissuto. Proprio a partire dalla situazione in cui la pandemia ci ha fatto piombare, stimolato anche da un colloquio telefonico avuto in questi giorni di prova, ho sentito di dover riflettere sul peccato sociale che nel tempo della globalizzazione si manifesta e si alimenta nelle ingiustizie strutturali che, nostro malgrado ma non senza anche il nostro concorso, affliggono le relazioni umane. Purtroppo ci siamo assuefatti ad una visione perversa dello sviluppo economico per la quale più si è egoisti, dedicandosi a perseguire il proprio interesse e a massimizzare i propri profitti, e più si realizza il bene degli altri perché la ricchezza che uno produce per se stesso sarebbe (da una sorta di mano invisibile!) redistribuita alla collettività. Mi pare proprio che questa ideologia dell’egoismo virtuoso che si traduce nell’idolatria del profitto faccia piuttosto acqua davanti alla tragedia della pandemia. Dall’emergenza attuale se ne può uscire soltanto insieme e ponendo in atto comportamenti razionali, come ci fa capire l’esperienza di questi giorni. L’egoismo razionale, che secondo alcune teorie etiche potrebbe funzionare, a mio parere è un concetto puramente mentale, che non esiste nella realtà, come dimostrano i paradossi e l’instabilità inquietante dei mercati finanziari. Ma è soprattutto la situazione che si profilerà presumibilmente dopo la fine dell’emergenza pandemica a imporci la necessità di una conversione sociale. Solo disponendoci a vivere una solidarietà autentica attraverso una vera metànoia, un radicale mutamento del modo di pensare, potremo affrontare le temibili conseguenze sul sistema economico del blocco forzato e prolungato delle attività lavorative. È forse proprio questa metànoia, questo radicale mutamento del modo di pensare e di amare, il miracolo più urgente che, noi credenti, dobbiamo implorare per noi ma anche per chi non crede. Siamo tutti sulla stessa barca nella stessa tempesta, come ci ricordato anche il Papa nella memorabile preghiera del 27 marzo 2020. D’altra parte, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II, l’invito ad accogliere l’amore di Dio che fa nuove tutte le cose non vale «solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).
Per meglio esprimere quello che vorrei dire cedo la parola al Cardinale Betori riportando, col suo permesso, uno stralcio della sua lettera ai preti fiorentini del 24 marzo 2020:
«Dobbiamo riuscire a cogliere nel dramma in cui siamo piombati una significativa lezione circa la natura della condizione umana. Il coronavirus fa emergere una unità della società e dell’intero genere umano di cui, per così dire, avevamo perduto coscienza. Negli ultimi due secoli e, in modo accentuato, negli ultimi decenni, ci siamo ubriacati di esaltazione dell’individuo, alla ricerca di un “io” che fosse tutto nostro, da non spartire con nessuno: preoccupati di mettere confini, illusi di creare ambienti protetti, divisi dagli altri per interessi e pregiudizi, affamati di possessi tutti nostri. La società della globalizzazione di merci e comunicazioni e anche la società dei muri e dei privilegi. E ora, all’improvviso, con la violenza di una calamità, ci riscopriamo tutti incatenati da un invisibile virus, che mette allo scoperto legami indistruttibili, che non sono creati per fini economici o ideologici, ma naturali: sono i legami che ci fanno membra di un unico genere, il genere umano. II virus è un affare di noi uomini e donne, solo di noi e di tutti noi, nessuno escluso, perché anche chi non viene contagiato ne subisce pesantemente le conseguenze, e questo in tutte le dimensioni della vita: materiali, sociali, culturali, spirituali. Così ci scopriamo connessi a un livello ben più profondo di quello della circolazione dei beni e della condivisione delle news e dei loro spesso devianti commenti.
Il problema che ci sta di fronte è come vivere questa mutua appartenenza, questa reciproca dipendenza. Come una condanna da cui liberarsi per riconquistare, non appena sarà possibile, la nostra indipendente autonomia? O come una vocazione da far traslocare dal piano biologico a quello culturale e sociale e, perché no, a quello della fede? In fondo il mistero dell’incarnazione ha come termine questa carne che ci accomuna tutti e il mistero della salvezza avviene nella carne che è ciò che oggi viene aggredito e che da sempre ci lega. La comune umanità, da condizione deve diventare missione e l’appartenenza comune deve potersi tradurre in solidarietà, che ci fa gli uni responsabili degli altri, pronti a prenderci cura del fratello, soprattutto quello più debole.
È questo l’atteggiamento da maturare in questo nostro tempo e che non dovremo disperdere nel futuro. Guai se tutto tornasse come prima. Non è vero che ha da passà ‘a nuttata: abbiamo bisogno che sorga un giorno nuovo, diverso da quelli di prima, meno offuscato dalle bramosie individuali e più illuminato dalle responsabilità reciproche».
Chiediamo a Maria, che ci accompagna in questo “esodo” con amore di madre, il dono urgente della conversione della mente e del cuore, e chiediamolo non soltanto per noi ma per tutta la famiglia umana. Per quel che ci riguarda, impegniamoci fin da subito ad orientare concretamente i nostri sentimenti e il nostro volere alla solidarietà. Sia questo l’inizio della nostra risurrezione pasquale.