di Stefano Tarocchi · La cifra interpretativa sulla Pasqua che ci apprestiamo a vivere in questo clima surreale dell’anno 2020, segnato dalla diffusione della pandemia, ci viene spontaneo leggerla nella preghiera che venerdì 27 marzo Papa Francesco ha guidato, prima all’esterno sulla piazza San Pietro deserta, davanti solo all’immagine della Madre di Dio, la Salus populi romani, e al Crocifisso di S. Marcello al Corso, intrisi di pioggia, quando ha pronunciato le sue parole di esortazione e di supplica commentando la pagina della tempesta placata del vangelo secondo Marco (4,35-41). E poi quando ha guidato l’adorazione eucaristica con le invocazioni: «liberaci o Signore: dall’orgoglio e dalla presunzione di poter fare a meno di te, dagli inganni della paura e dell’angoscia, dall’incredulità e dalla disperazione, dalla durezza di cuore e dall’incapacità di amare». E quindi «salvaci o Signore: da tutti i mali che affliggono l’umanità, dalla fame, dalla carestia e dall’egoismo, dalle malattie, dalle epidemie e dalla paura del fratello, dalla follia devastatrice, dagli interessi spietati e dalla violenza, dagli inganni, dalla cattiva informazione e dalla manipolazione delle coscienze».
A coloro che di ogni parte hanno fatto sentire le loro vuote lagnanze sulle chiese dove non si celebra l’Eucaristia e sul popolo di Dio confinato in un prolungato digiuno del Pane della vita, è stata impartita una lezione senza pari. Quell’uomo, il vescovo di Roma, che ha mostrato al mondo tutta la sua debolezza di anziano, ha rivolto al Signore la sua preghiera di intercessione e di liberazione da questo e dai tanti mali che affliggono l’umanità: «come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti», così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme»: così ha parlato papa Francesco.
In fondo tutto questo ha come un’eco straordinaria nella parola di Dio – la seconda lettura assegnata alla Liturgia del Venerdì Santo –, con il versetto che la incornicia: «su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire [lett.: “all’ascolto”]» (Eb 5,11). Potremmo rileggere questo passo ancora con le parole del papa in piazza S. Pietro: «abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».
Tuttavia, il percorso del tratto della lettera agli Ebrei inizia da più lontano: «poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti, non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,14-16).
Qui la celebre omelia agli Ebrei – conosciuta come epistola, e, in verità, accostata a lungo impropriamente all’apostolo Paolo –, definisce il ruolo di Colui, che diventa sommo sacerdote non per nascita, né per propria scelta: «Cristo non attribuì a sé stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì come è detto in un altro passo: Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 5,5-6).
L’apostolo Paolo lo aveva ripetuto a suo modo in quella confessione cristologica che apre la lettera ai Romani, a proposito del «vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore (Rom 1,1-4).
Ma prima di giungere alla potenza della Risurrezione, con cui Gesù nella lettera agli Ebrei è stato costituito mediatore di salvezza (sommo sacerdote appunto, secondo l’ordine inedito di Melchisedek), ovvero «Figlio di Dio con potenza» secondo la lettera ai Romani, sempre mantenendo il suo ruolo, in quanto – di nuovo la lettera agli Ebrei – «messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato».
Ma è nel capitolo successivo dell’epistola agli Ebrei che viene riassunta la parabola umana del Figlio di Dio nei suoi momenti più alti: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito».
Il Cristo, che come ricordano i Vangeli della passione, ha accettato il disegno divino: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà» (Mt 26,42). E come dice ancora la lettera agli Ebrei: «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 5,7-10).
La perfezione sacerdotale di Gesù, ottenuta dalla sua passione, opera la consacrazione sacerdotale dell’intero popolo di Dio: «con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10,14).
E qui concludiamo ancora con le parole commoventi e forti di papa Francesco nella solitudine abitata dal mondo intero di piazza S. Pietro: «Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate … Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21) … Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede? … Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta… Noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cf. 1 Pt 5,7)».