Il celibato dei preti. Ancora vale Paolo VI?
Sarà démodé tornare a papa Montini che discetta di celibato e di preti? Saprà forse di sacrestie vecchie e stantie? E queste righe si coloreranno di un tono grigiastro e uggioso se torniamo alla Sacerdotalis caelibatus? Confidiamo che non accada, non per merito di chi scrive, ma per la forza delle suggestioni che da quella enciclica promanano.
In effetti, a ben vedere, sono due i piani che vengono considerati nella risposta alle obiezioni, che – sia detto solo per transennam – non si distanziano di molto dalle obiezioni che ancora oggi vengono poste alla scelta celibataria della Chiesa cattolica. I piani considerati sono quello della convenienza teologica e quello della elevazione dei valori umani. La convenienza teologica del celibato è articolata ai vari livelli: quello cristologico innanzitutto, quindi quello ecclesiologico, infine il livello escatologico. Il celibato, agli occhi del papa, si pone come segno di radicalità che rimanda alla radicalità di vita di Cristo stesso. Il prete celibe diventa segno di Cristo che dona in pienezza se stesso, segno di un amore senza riserve. Ma ben presto, nelle parole di Paolo VI, questo segno cristologico di pienezza e di radicalità acquista un significato ecclesiale (nell’ambito della carità pastorale) e un significato escatologico (come segno che indica la meta al popolo di Dio).