di Giovanni Campanella • Nel mese di ottobre 2018, la casa editrice Arianna ha pubblicato un libro, intitolato L’inganno e la sfida – Dalla società post-industriale a quella post-capitalistica – 2019: le ragioni di una crisi finanziaria, all’interno della collana “Free writers”. L’autore è Antonino (talvolta chiamato Nino) Galloni.
Antonino Galloni è figlio del noto avvocato, politico, vicepresidente del CSM e professore di diritto Giovanni Galloni. Quest’ultimo, al tempo in cui era ordinario di Diritto Agrario a Firenze, insegnò anche al direttore di questa rivista. Nel mese di maggio 2018, il nostro Giovanni Pallanti scrisse un articolo in memoria dell’esimio professore (articolo).
A distanza di un anno, mi cimento nella recensione dell’ultimo scritto del figlio Antonino. Nino si è molto distinto nello studio dell’altra grande branca delle scienze sociali, l’economia. Nato a Roma nel 1953, è stato funzionario di ruolo del Ministero del Bilancio, direttore generale del Ministero del Lavoro e ha svolto controlli contabili all’INPDAP, all’INPS ed all’INAIL. È stato tra i più stretti collaboratori del celebre economista Federico Caffè.
Al centro di questo saggio di Galloni sta la stridente contraddizione tra il superato limite della scarsità dell’offerta dei beni, raggiunto finalmente nel ‘900 dopo secoli di imponenti sforzi, e la palese persistenza di grandi sacche di povertà. L’eccessiva finanziarizzazione dell’economia e un uso improvvido di strumenti di politica monetaria hanno portato agli attuali scenari di crisi.
Com’è possibile questa paradossale coesistenza di abbondanza e povertà, benessere e malessere? Lasciando da parte il fatto che a volte si può essere poveri nell’abbondanza (essere afflitti da diversi tipi di povertà), sembrerebbe proprio che sussistano ancora gravi problemi di distribuzione. Problema di distribuzione vuol dire problema di interconnessione. E problema di connessione è problema di relazione. L’universo delle relazioni è sempre stato elemento fondamentale nella vita dell’uomo. Sembra però che oggi tale problema si sia ancora più approfondito, “arricchito”, “sfaccettato”, bussando più insistentemente alle nostre coscienze. Già nella premessa, la psicologa Roberta Lasi suggerisce che una possibile via di risoluzione sia quella di non pensare più al benessere come a qualcosa di individuale e puntuale ma come a qualcosa di necessariamente diffuso. Benessere individuale è illusione. Lo era già prima ma ancora più lo è nell’odierna società delle connessioni.
La solita vecchia rincorsa alla massimizzazione del profitto è ciò che sempre ci frega. Ora però ci frega ancor di più: infatti è ormai dalla metà del secolo scorso che gli investimenti finanziari promettono molto, molto di più degli investimenti nell’economia reale. Questo drena moltissime risorse e capitale dalle attività reali verso attività puramente finanziarie e speculative. Ciò va a discapito del lavoro e di prospettive di crescita per tutti. Ma, appunto, profitto è davvero sinonimo di benessere? Siccome sembra che il singolo privato non sia ancora in grado di darsi una buona risposta da solo, è necessario che gli Stati facciano la loro parte nell’arginare il nefasto fenomeno dell’ultrafinanziarizzazione.
Dato il problema dell’assenza di liquidità per l’economia reale, Galloni avanza l’ipotesi di organizzarsi con credito alternativo, piattaforme finanziarie alternative, moneta alternativa.
«Una tipologia simile, che nacque ai tempi della carenza di euro in Grecia, prevedeva l’emissione di una moneta, il Civic, da parte di una pubblica amministrazione (pa) piena di impegni, ma priva di euro. Funzionava così: la pa emetteva civics (del valore teorico di 50 euro ciascuno) e li destinava a paga giornaliera di disoccupati che aggiustassero le strade o curassero i giardini; poi apriva un servizio pubblico a pagamento (ad esempio un nuovo asilo nido) e chiedeva agli utenti di pagare metà in euro e metà in civics; i genitori (nell’esempio dell’asilo nido) se li procurano dai disoccupati neo-assunti. Ed ecco: senza spendere un euro che la pa non aveva, veniva dato un lavoro e un reddito ai disoccupati, sistemate strade e giardini, aperto un nuovo servizio (seppure a pagamento)» (p. 100).
L’ultimo paragrafo è dedicato al fenomeno delle migrazioni africane. I disastri del colonialismo europeo hanno portato in Africa ciò che per millenni non c’era: la fame. Le corrotte classi dirigenti locali sono quasi sempre “figlie” delle politiche sfruttatrici europee. Pochissime sono state le eccezioni. Galloni ricorda ottimi esempi da seguire: l’Eni di Enrico Mattei (e mi riallaccio a uno dei miei recenti articoli) riuscì a portare, anche se per poco tempo, una cultura di sviluppo locale e di condivisione degli utili.