Gaudet Mater Ecclesia

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di Alessandro Clemenzia · Gaudet Mater Ecclesia. Con queste parole, solennemente pronunciate l’11 ottobre 1962, Papa Giovanni XXIII aprì in modo ufficiale il Concilio Vaticano II. Come in tutti gli altri Concili Ecumenici, ha sottolineato allora il Papa, non c’era altro scopo da raggiungere se non quello che fosse irradiata in ogni luogo della terra la luce della verità. Tale veritatis lux splende proprio dentro l’umanità, con tutte le sue contraddizioni: e proprio per questo la Chiesa ha sentito il bisogno di un aggiornamento sulla trasmissione della fede. Nello stesso discorso di apertura Giovanni XXIII ha affermato: «Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi».

Tale desiderio di approfondire e di esporre in modo rinnovato la dottrina non significa affatto porsi in un atteggiamento di rottura e di discontinuità con il passato; ha affermato ancora il Papa: «Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate». La questione, dunque, non riguarda il contenuto della dottrina, ma la forma con cui essa è trasmessa alle nuove generazioni.

La trasmissione della fede non può essere considerata un’azione pastorale come un’altra, essa ha una importanza decisiva, anzi, “costitutiva” per la Chiesa, in quanto attraverso di lei si è moltiplicato il numero dei seguaci di Gesù di Nazareth: basti pensare all’evento di Pentecoste narrato negli Atti degli Apostoli. Pietro, davanti a una numerosa assemblea, si alza in piedi e racconta la sua particolare esperienza di Cristo; nel momento in cui avviene tale comunicazione accade qualcosa di “nuovo” rispetto a prima nell’interiorità degli interlocutori: «All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli”?» (At 2,37). E qui la conclusione: «Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (At 2,41).

L’aggiornamento, fortemente auspicato dal Concilio Vaticano II, non è andato minimamente a cambiare le verità di fede, ma ha comunque toccato una componente essenziale della Chiesa. Non solo, tale aggiornamento presenta anche un modo realmente dinamico di comprendere la Chiesa in relazione alla Tradizione; basti pensare a quanto ha affermato Giovanni XXIII: «Noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli».

Per questa ragione, ha spiegato il Papa, «quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace». Certamente, l’efficacia di una comunicazione della fede dipende in grande misura dal modo in cui il soggetto annuncia; ma è anche fondamentale l’interlocutore a cui ci si rivolge. Anzi: il modo in cui il locutore comunica in realtà dovrebbe dipendere proprio dall’interlocutore. Perché ci sia un autentico aggiornamento, lo sguardo ecclesiale deve costantemente essere orientato verso il contesto sociale e culturale in cui si vive, ponendosi in un atteggiamento che non sia di chiusura o di (pre)giudizio. Si legge ancora in quel discorso: «Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa». E qui la conclusione: «A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».

Se è vero che la comunicazione della fede è un elemento costitutivo per la comunità cristiana sin dalle origini, allora dal modo in cui ciascuno guarda e interpreta la realtà scaturisce un modo differente di giudicare il mondo e, di conseguenza, di autocomprendersi come Chiesa nel mondo.

Sessant’anni sono ormai passati dal citato discorso di Giovanni XXIII; pur essendo stato scritto prima di ogni documento discusso in sede conciliare, in esso si possono rintracciare i semi di quanto poi è stato collegialmente affrontato.

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