«Consegnala loro per me e per te». La tassa per il tempio e Gesù (Mt 17,24)
Invece, nel solo vangelo di Matteo si pone una domanda simile per una questione completamente diversa: si tratta del pagamento della tassa del tempio: «quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio [lett: «quelli che ricevevano la didracma», ossia la moneta della tassa] si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento (lett. statêr). Prendila e consegnala loro per me e per te» (Mt 17,24-24).
Il pagamento della tassa del Tempio, a differenza del pagamento del tributo a Cesare, non era problematico dal punto di vista del diritto ebraico, poiché non comportava il riconoscimento della signoria straniera della Terra Santa e l’utilizzo di una moneta che potesse essere considerata idolatrica. Infatti, questa tassa del tempio aveva lo scopo di sostenere il sistema sacrificale a Gerusalemme, ovvero «il servizio del tempio del nostro Dio», come vedremo dice il libro di Neemia.
Secondo la Mishnah, testo fondamentale dell’ebraismo rabbinico, che conserva le sentenze dei Maestri della tradizione, il tributo doveva essere pagata annualmente, nel mese di febbraio-marzo, da tutti i maschi ebrei adulti di età superiore ai vent’anni. Esistevano peraltro delle controversie su chi doveva pagare: per esempio, cosa accadeva per i sacerdoti del tempio?
Dai frammenti di Qumran a noi giunti sembra che gli Esseni pagassero la loro tassa solo una volta nella vita, e questo per la repulsione verso i sacrifici di sangue e verso la stessa casta sacerdotale che aveva in mano il tempio medesimo.
Come dice il vangelo di Matteo, si pagava una didracma, ossia una “doppia dracma”, una moneta di due dracme coniata in argento che aveva il valore di denarî romani, oppure un mezzo siclo ebraico. Di fatto, però, nel vangelo si fa riferimento ad un’altra moneta: la statêra, una moneta d’argento del valore di quattro dracme dell’Attica, equivalente a un siclo ebraico. E questa era la tassa esatta per due persone: Gesù e Pietro. Sembra improbabile, nonostante affermazioni contrarie, che i Galilei in particolare fossero negligenti nel pagare.
Sebbene apparentemente di origine post-esilica origine, la tassa del tempio era considerata dai farisei almeno come saldamente radicata nella Scrittura (Allison e Davies). Ed ecco i testi biblici in materia. Leggiamo in Esodo 30,11-16: «quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera [lett. «venti oboli»: ovvero la sesta parte della dracma]. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite». E così vediamo in Neemia 10,33-34: «ci siamo imposti per legge di dare ogni anno il terzo di un siclo per il servizio del tempio del nostro Dio: per i pani dell’offerta, per l’oblazione perenne, per l’olocausto perenne, nei sabati, nei noviluni, nelle feste, per le cose sacre, per i sacrifici per il peccato in vista dell’espiazione in favore d’Israele, e per ogni attività del tempio del nostro Dio».
Questo l’insegnamento della Scrittura. Ma è altrettanto interessante notare che dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. ad opera di Tito, venne istituito dall’imperatore Vespasiano il fiscus iudaicus: gli Ebrei, assoggettati all’Impero a conclusione della rivolta che aveva portato alla distruzione della città santa, furono obbligati a versare una tassa di due dracme ciascuno per ogni anno: la stessa che era prevista per il tempio di Gerusalemme.
Ora, questo tributo era invece destinato al tempio di Giove Ottimo Massimo, o Giove Capitolino, a Roma. come risarcimento per i danni di guerra. Inevitabilmente questa tassa, poi abolita dall’imperatore Cocceio Nerva (che regnò dal 96 al 98 d.C.), fu considerata un vero e proprio affronto per gli Ebrei.