di Maddalena Giannelli · La situazione drammatica che tutto il mondo ha vissuto negli ultimi mesi, la forzata e necessaria chiusura di ogni attività e la costretta segregazione nelle proprie abitazioni, ha portato tutti gli studenti, e forse ancora di più noi matricole, a doversi confrontare con una faticosa solitudine che solitamente non caratterizza la vita universitaria. A chi deve affrontare il primo anno di università non solo viene raccontato, da chi l’ha già vissuto, come essa conduca a una libertà assolutamente nuova e a una crescita personale autentica, sempre più volta a un attento e continuo approfondimento; ma anche come faccia conoscere una nuova forma di convivialità. Università dunque è luogo comunitario, in cui la fatica che a volte comporta lo studio viene condivisa e superata nella gioia di non essere soli. Nei rapporti con i colleghi, nelle lunghe studiate notturne, nella comune ansia prima degli esami, si intesse, nascosta e silenziosa, l’esortazione paolina che spinge a “portare gli uni i pesi degli altri” (Gal 6, 2). Tutto questo collaborare e crescere insieme nello studio è stato però interrotto dall’improvviso arrivo della pandemia e ha costretto ogni studente a misurarsi con una solitudine prima sconosciuta.
Nella mia esperienza personale, l’inizio del lockdown si è collocato a pochi mesi da un Pellegrinaggio in Terra Santa, nel quale ho vissuto la radicalità del deserto. Rimasto ancora così tanto indelebile in me il segno di quel luogo, quando in quarantena mi sono ritrovata stretta nel silenzio della mia camera, non ho potuto fare a meno di ricordare il Deserto di Giuda, con la portentosa fatica che lo abita, il cui peso schiaccia l’uomo che l’attraversa. Ma insieme alla fatica, ricordavo la certezza che ebbi dell’estrema e assoluta presenza di Dio. “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2, 16), il silenzio assordante nel quale Dio chiede all’anima di amarLo per la vita, si accosta dolcemente e parla al suo cuore. Ho cercato, per tutta la quarantena, di scavare nella mia fatica, nella difficoltà di affrontare uno studio reso sterile dall’ingombrante presenza del virtuale, dalla mancanza del contatto con il professore, necessaria fonte a cui attingere e dalla mancata percezione di altri corpi che percorressero i miei stessi passi. Ma poi si è aperto un varco, improvvisamente è caduto il velo. Una certa docilità, vaccinata dalla speranza di uno sguardo più ampio che non si blocchi alle tragiche evidenze del reale, mi ha sostenuto nella perseveranza: faticosa prova di amore, promessa di compimento. Ormai sconfitta dalla monotonia di giorni apparentemente identici, quando il desiderio dello Studio e del Sapere erano stati assopiti da una solitudine insopportabile, quel profondo deserto ha iniziato a germogliare. Imparando così dal primo deserto che avevo vissuto, per me luogo di Incontro e di Presenza, ho capito che dovevo fecondare ogni mio impegno, ogni mio studio, fatica e quotidianità, con ciò che avevo trovato in quella Terra e, restando aggrappata all’ “àncora in cielo” (Eb 6, 19), con lo sguardo fisso su Cristo, scoprire con rinnovata gratitudine una dimensione in cui tutto rimane unito, tutto risulta assolutamente necessario per raggiungere la “parte migliore” di Maria, che non ci sarà mai tolta.