di Antonio Lovascio • Giovanni Paolo II, il Papa “rimasto uomo” nonchè “grande comunicatore”, oggi venerato come Santo, e il suo fedele Portavoce, Joaquin Navarro Valls, non finiranno mai di stupirci. E di spronarci anche attraverso le testimonianze di chi li ha conosciuti e avuto la fortuna di frequentarli in privato nei Palazzi Apostolici, a Castelgandolfo o nei viaggi pastorali all’estero; di chi ne ha raccolto confidenze, stati d’animo della loro “vita parallela” tra le mura vaticane durata 20 anni. Un affresco con spunti non convenzionali di quelll’intenso pontificato ce lo offre il volume scritto e curato da Paolo Arullani edito da Ares (pagine 172, euro 19) ad un anno dalla scomparsa di “Kiko”, come veniva affettuosamente chiamato dagli amici il medico spagnolo con doppia specializzazione in chirurgia e psichiatria, che aveva lasciato le corsie degli ospedali affascinato dal mondo della Comunicazione e poi – tra non poche resistenze – chiamato personalmente dal pontefice polacco a dirigere la Sala Stampa della Santa Sede, per darle un’impronta di professionale modernità.
E quanto sia stata incisiva ma mai eccessiva la “regia” mediatica di Joaquin emerge dai contributi non solo di esponenti dell’entourage papale (non poteva mancare nella Prefazione il ricordo del segretario, Cardinale Stanislao Dziwisz, vicino a Wojtyla da Cracovia fino alla morte) ma anche di personaggi dell’economia come Sergio Marchionne e Mario Moretti Polegato, non abituali frequentatori del Vaticano. Le pagine ed i racconti che più mi colpiscono in questo libro sono quelli che parlano di sofferenza e dolore, che richiamano la dura malattia che ha colpito entrambi. Per ultimo Navarro Valls, cui certo non mancò la forza di chiedere al suo medico curante (il prof. Bruno Vincenzi) il percorso terminale del suo male. «Joaquín era un uomo estremamente riservato – spiega Arullani, presidente onorario del Campus Biomedico di Roma – e mi rimproverò per essermi lasciato sfuggire qualcosa sulla sua infermità. Non voleva farsi compatire».
Noi tutti abbiamo ancora scolpite negli occhi le ultime drammatiche immagini di Wojtyla, incapace ormai di parlare, piegato dal Parkinson. Quell’interminabile straziante Calvario che il medico-giornalista originario di Cartagena si trovò a comunicare giorno per giorno, ora per ora in mondovisione. E forse, se avesse potuto, lo avrebbe un po’ nascosto o mitigato, con un gesto di pura pietà cristiana: proprio per la sua preparazione scientifica non poteva venir meno ai doveri d’ufficio. Giovanni Paolo II aveva deciso di portare la croce della propria malattia fino all’ultimo, con coraggio, davanti alle folle di fedeli, al popolo di Dio. Ed ora apprendiamo quella frase «Ma lei pensa che non mi veda in televisione come sono combinato?» che disse un giorno a chi si era spinto a notare in lui un improbabile miglioramento dello stato di salute. Rivedendo le immagini, ne abbiamo conferma: la rigidità muscolare causata dal Parkinson gli aveva fatto perdere il sorriso che il suo portavoce, così elegante, garbato, premuroso e comprensivo dispensava con ancora maggiore generosità.
Navarro Valls, lasciata la Sala Stampa della Santa Sede, che tenne dal 1984 al 2006 (gli ultimi due anni con Benedetto XVI), tornò alla sua vecchia passione, assumendo la presidenza del Campus Biomedico di Trigoria. Riprese così a trattare quotidianamente un tema sul quale aveva studiato, dibattuto, scritto: curare la malattia, dare senso al dolore. Parlando agli studenti ed ai neolaureati, decise di svelare il dialogo fra Wojtyla e il suo neurologo, costretto a esporgli la diagnosi infausta. «Santo Padre lei come vive questa situazione?» disse il medico forse nel tentativo, un po’ goffo, di consolarlo. «Io mi chiedo che cosa voglia dirmi Dio con questo» fu la risposta. E Navarro-Valls così la commentava: «Chi soffre non può non interrogarsi sul senso di quello che gli accade, ma soffre ancora di più se non trova una risposta. Giovanni Paolo II aveva perso la madre a 9 anni, e più tardi il fratello, non aveva mai conosciuto la sorella, morta prima che lui venisse alla luce, per di più in una Polonia già caduta sotto l’occupazione nazista. Era pertanto piuttosto naturale che, dopo aver già sofferto alcuni lutti significativi, egli fosse colpito dall’esperienza del dolore come possibilità di un più grande amore».
La sofferenza era dunque per Navarro-Valls una concentrazione dei pensieri sul passato, una totale mancanza di prospettiva. Il dolore che va colmato con l’attenzione alla dignità della persona. Lo aveva imparato proprio da Papa Wojtyla, che – lo troviamo nella lettera apostolica “Salvifici Doloris”, cui ambedue hanno dato un’esemplare applicazione nella propria vita – accomunava al termine sofferenza quello di un mistero che l’essere umano non può oltrepassare. Ed oggi leggendo alcuni testi inediti del Portavoce, è facile comprendere perché Giovanni Paolo II dispose, fin dall’inizio del suo pontificato, che le prime file delle udienze del mercoledì o nelle celebrazioni in piazza San Pietro fossero riservate ai malati, affinché si sentissero circondati dall’affetto di tutti. «Con chi soffre non si deve avere mai fretta e bisogna saper ascoltare>. «Quella frase era per noi medici – scriveva Navarro-Valls – una stupenda indicazione che andava oltre la diagnosi e la prescrizione della terapia». Nella poesia Profili di Cireneo del 1958, Wojtyla parlava dei cirenei del nostro tempo. Uno lo avrebbe avuto accanto, vent’anni dopo, come annota in una bella recensione sul “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli.
Scorrendo ulteriormente il volume, l’attenzione si sofferma sulle sferzanti e non scontate pagine su Giovanni Paolo II grande comunicatore, che si esaltava e trovava le battute migliori nei raduni oceanici dei giovani. Ai quali non lo si è mai sentito parlare dei pericoli di una sessualità disordinata e capricciosa, ma della bellezza e della ricchezza dell’amore umano. Il “grande comunicatore” sapeva infatti infondere energie positive: <Mi trovo d’accordo con questa espressione – sottolinea Paolo Arullani – ma ci può trarre in inganno. Perché quello che ci viene in mente è la sua bella voce, il gesto, la sua espressività magnifica… Erano le sue armi… Ma era per questo che lo chiamavamo il grande comunicatore? No. Perché comunicava Dio. Comunicava progetti, traguardi, valori: questa era la ricchezza che faceva di Giovanni Paolo II un grande comunicatore; per tutto il contenuto di ciò che trasmetteva >.