La povertà e il suo contrario
di Alessandro Clemenzia • «Prendere coscienza del rilievo teologico della categoria dei poveri ci rimanda ad una conversione oggi più che mai urgente. Perché da Evangelii gaudium in poi (e dalle continue forti parole di Francesco contro le curie e i poteri infiltrati nelle radici della Chiesa) il tema è ineludibile» (p. 71).
L’importanza della povertà come forma della Chiesa trova il suo fondamento primo ed ultimo, non in uno o nell’altro pontificato, ma nel «mistero dell’impoverimento del Verbo di Dio fattosi uomo e morto sul legno» (p. 21).
Tale riflessione, portata comunque in auge da Papa Francesco, trova nel Vaticano II il suo snodo fondamentale, particolarmente in quel passo voluto dal cardinale Lercaro, e contenuto in Lumen gentium 8, dove si sottolinea come la vera forma che la Chiesa è chiamata ad assumere è proprio la forma Christi, vale a dire la spogliazione di sé (significato racchiuso nel termine kenosi, ripreso dall’inno cristologico della Lettera ai Filippesi). E proprio a partire da questa affermazione magisteriale, Lorefice giunge all’Evangelii gaudium: in essa si può scorgere come Papa Francesco sia perfettamente in linea con questo passo conciliare seppure non l’abbia mai citato espressamente. La Chiesa deve prendere le distanze da un’aporia di fondo che innerva costantemente l’esperienza cristiana, che consiste nell’avere «il suo baricentro nei potenti di turno piuttosto che nei poveri e nelle classi emarginate dalle “caste” che tradizionalmente abitano e detengono “gli spazi di potere”» (p. 36).
Quanto è emerso, evidentemente, deve portare a un nuovo modo ecclesiale di porsi verso la realtà circostante: in questo consiste la “conversione” di cui parla l’Evangelii gaudium. La Chiesa è povera non quando non possiede, ma quando è capace di lasciarsi mettere in continua discussione dalla presenza dell’altro, dovendo così fare i conti con la propria fragilità, oltrepassando la paura di perdere privilegi di ogni tipo e riconoscendosi «una comunità di salvati, di peccatori perdonati» (p. 54). Tale consapevolezza della propria precarietà non va comunque vissuta in modo autoreferenziale, ma relazionale: la Chiesa è “serva” del mondo, operando concretamente nel nascondimento quotidiano.
La povertà, tuttavia, insiste ancora Lorefice, non può limitarsi a diventare l’oggetto primario della riflessione ecclesiale: la vera questione «non è come parlare della povertà, ma come rendere “povera” la nostra parola, come rendere “povere”, in senso forte, cristologico, le nostre omelie, i nostri incontri, le nostre catechesi» (pp. 60-61). L’autore entra così nell’ambito della comunicazione della fede, e cerca di capire in che modo un linguaggio possa assumere la forma del contenuto che vuole esprimere. La parola, in primo luogo, non deve scaturire da un atteggiamento difensivo, causato dalla distanza tra vita vissuta e Vangelo annunciato, ma deve appropriarsi con fiducia del proprio limite. In secondo luogo, la parola non deve lasciarsi incastonare da schemi concettuali e dottrinali che impediscono al Vangelo di fluire liberamente nell’esistenza individuale e relazionale di ogni persona.
La povertà, dunque, è generatrice di libertà. Ed è in questo contesto, alla luce dei diversi elementi messi in luce, che Lorefice sottolinea come, biblicamente, il contrario di povero non sia “ricco”, ma “potente”: «Basta solo questo dato linguistico per condurci in una direzione chiara e molto scomoda. Una Chiesa povera è in verità una Chiesa senza potere» (p. 69). Questo si traduce concretamente nell’assumere uno sguardo critico e profetico verso tutto ciò che avviene davanti ai nostri occhi, denunciando apertamente ciò che, sul piano politico, sociale ed economico, non corrisponde alla teo-logica del Vangelo. La misura del giudizio, tuttavia, non può scaturire da altro, che dalla forma Christi.