di Dario Chiapetti · San Francesco è stato un profeta? Sapeva di esserlo? Cosa ha profetizzato? E soprattutto – è possibile aggiungere – la sua carica profetica e il contenuto delle sue profezie riguardano anche i francescani in questa nuova epoca storica che è iniziata? La questione dello spirito profetico in Francesco non è stata oggetto di particolare attenzione degli studiosi, eccetto un articolo di Nicole Bériou, comparso alla fine degli anni Ottanta, che però circoscriveva l’indagine alla predicazione sul Santo, senza estenderla a tutte le fonti francescane. È a tale compito di completamento che ha assolto Pietro Messa, ofm, docente di Storia del Francescanesimo presso la Pontifica Università Antonianum, con il suo Francesco profeta. La costruzione di un carisma (Viella, Roma 2020, 221 pp., 25 euro), offrendo interessanti scoperte, come ha scritto il medievista francese André Vauchez nella Prefazione.
Dal punto di vista terminologico un aspetto basilare che l’Autore chiarisce è quello riguardante il significato del termine “profezia” in età medievale. Egli ricava sinteticamente che esso indicava la capacità, da un lato, di interpretare le visioni, di svelare il piano divino nascosto, in particolare a partire dalla Scrittura e in riferimento alla predicazione, dall’altro, di prevedere avvenimenti futuri. L’Autore a tal proposito osserva che la profezia come sinonimo di predicazione è attestata in diversi sermoni del XIII secolo, la profezia come previsione del futuro fu promossa negli eremi, in cui era privilegiato l’aspetto contemplativo.
Dal punto di vista metodologico, l’Autore affronta la fondamentale questione delle fonti. Egli opera una ricognizione sul contesto storico e le finalità dei diversi testi. Ciò ha permesso di distinguere i testi di Francesco da quelli su Francesco e, tra questi ultimi, quelli che riprendono le profezie dai primi da quelli che attribuiscono al Santo nuove profezie, rivelate da questi prima o dopo la morte. Dal Testamentum si evince che Francesco abbia compreso e presentato sé come profeta, nel senso di depositario di particolari rivelazioni divine – Dominus revelavit mihi – e in particolare riguardo al vivere secundum formam sancti Evangelii e al saluto Dominus det tibi pacem, rivelando che la sua esperienza rappresenta un’assoluta novità di vita, non sempre pienamente compresa a livello ecclesiale.
Per quanto concerne gli scritti su Francesco, la questione è più complessa. Innanzitutto, il quadro che emerge è che la profezia del Santo riguarda la sua persona (la sua è una chiamata divina ad essere un novellus pazzus in mundo, come riportato da alcuni agiografi), il suo futuro (come la predizione della benevolenza di Innocenzo III presente nella Vita beati Francisci), lo sviluppo dell’Ordine (come ancora nella Vita beati Francisci), santa Chiara e la comunità di san Damiano (come nella Legenda trium sociorum), avvenimenti di grande portata storica (come l’annuncio della fine della gloria di Ottone IV attestata dalla Vita beati Francisci).
In particolare, l’Autore individua, da un lato, un filone carismatico, riconducibile a frate Leone e a frate Rufino, messo a punto da Angelo Clareno, Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale, che ha trovato accoglienza tra gli Spirituali, il quale, per far fronte alla decadenza dell’Ordine, attribuita al distacco dalla regolare osservanza della Regula, presentava la profezia di Francesco come riproposta dell’intentio originaria di quest’ultimo, dall’altro, un filone istituzionale, di cui Bonaventura è esimio rappresentante, teso a mostrare una profezia di Francesco che legittimasse uno sviluppo dell’Ordine, indipendentemente da una necessaria osservanza letterale della Regula. L’Autore fa notare infatti come, da un lato, Bonaventura (come anche Tommaso da Celano) ricordi solo la profezia legata al saluto di pace e attribuisca al Santo profezie sull’espansione dell’Ordine, dall’altro, come il Clareno consideri non solo la Regula ma anche il Testamentum ed altri scritti frutto di rivelazione. Ancora, si nota come nel Memoriale il Celano interpreti il povero mantello della visione della statua come l’anima di Francesco, il Clareno come decadenza dell’Ordine, e come Bonaventura tralasci l’episodio.
Ad ogni modo, l’Autore attesta come le profezie riguardanti l’ampliamento dell’Ordine, e della sua sopravvivenza sino alla fine della storia, siano prolificate nei secoli XIII-XV, nel contesto delle sue divisioni interne, e vennero intrepretate, in alcuni casi, come frutto di un intervento miracoloso di Francesco, con scopo rassicurante, in altri, con spirito critico a motivo della decadenza dei membri («se l’Ordine si riducesse anche a soli tre frati», Memoriale). L’Autore mostra come oggetto di particolare attenzione fu l’evento delle stimmate a cui furono accostate particolari rivelazioni fatte al Santo circa il futuro dell’Ordine (come nel caso di frate Rufino, ripreso da Tommaso da Ecclestone) o su particolari grazie concesse a Francesco (come il potere di trarre dal purgatorio anime di frati, suore e membri del terz’ordine, come riporta Bartolomeo da Pisa). Inoltre, l’Autore rende conto di come Francesco profetizzasse non solo la decadenza dell’Ordine ma anche la sua «“resurrezione”», grazie ad un ritorno all’osservanza della Regola, reso possibile per la convinzione di un intervento del Santo stesso, fondata su una serie di sue visioni e apparizioni, prova della sua risurrezione e del suo essere presente e operante tra i suoi, come è attestato, in vario modo, dal Celano, Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale.
L’Autore evidenzia la chiara compresenza di una gerarchia istituzionale e di una gerarchia carismatica. Ciò che emerge è la relazione – certo tensionale, ma anche feconda – tra un naturale e legittimo sviluppo istituzionale (si passò dai semplici frati ai dotti maestri, così come nella Chiesa si passò dai semplici pescatori ai padri dottori della Chiesa) e uno sviluppo carismatico-profetico, di carattere escatologico-apocalittico. Quest’ultimo, anche se ha attribuito profezie a Francesco – la cui veridicità è difficile da stabilire –, rivela una grande vitalità del carisma, nel riconoscimento e nella riproposizione della convinzione dello specifico e insostituibile ruolo che il francescanesimo – e in particolare l’Ordine Minoritico – ricopre nella storia della salvezza, e che l’Autore spiega in modo preciso. Scrive: «se la premessa per la pace escatologica è la vita santa dei Minori, l’unica via per giungere ad un futuro di pace è quella di ritornare all’osservanza della Regola» (p. 192), concludendo che la questione dell’osservanza della Regola non è «un problema morale o esemplare, ma escatologico» (ibid.).
Che il presente studio fissi tale dato è un risultato degno di nota, e apre alla considerazione personale che il recupero e il rinnovamento della consapevolezza del ruolo dell’Ordine nella storia della salvezza non possano che avvenire mediante effusioni dello Spirito, accolte, che generano soggetti pasquali, portatori così del carisma e del suo spirito di profezia, in fedeltà alla stessa dinamica che fu per Francesco. L’uomo carismatico – pneumatizzato, spirituale – a partire dalle sfide del presente (decadenze, divisioni), torna al passato (la Regula) alla luce del futuro (l’esperienza del Francesco stimmatizzato-risorto, escatologico), e brandisce lo stesso presente (segni dei tempi) come kairos. Da qui l’avvio del processo di conversione e il richiamo ad essa, in termini di ripresa di osservanza della Regola, e in particolare della povertà, come frutto non di decisione ideologica, come si è verificato nei decenni scorsi della storia minoritica (T. Matura), ma di esperienza, nello Spirito, di Francesco vivo. Ciò fa osare – il discorso si estende ad ogni cristiano, novello pazzo – nello spirito della santa povertà e della beata semplicità, e senza l’ossessione paralizzante di sbagliare (papa Francesco), di intraprendere nuovi percorsi, quali nuove risposte a nuovi scenari, con quella carica profetica, seria e credibile, per il mondo severo – tanto amato da Dio – che sta a guardare, ma che anche attende prossimità e condivisione, e segretamente mendica un segno di contraddizione, che gli trapassi l’anima.