di Mario Alexis Portella · L’impressione di molti in Occidente è che, a seguito della sconfitta del “califfato” islamico, le minoranze religiose in Iraq, in particolare i cristiani, non siano più perseguitate. Almeno questa è la tesi dei media mainstream. Ma è una tesi ben lontana dalla realtà.
Sì, le comunità cristiane irachene hanno subito e superato un duro colpo quando sono state disperse dall’attacco dell’ISIS nel 2014 — riducendo ulteriormente la popolazione cristiana già in diminuzione del paese. Ma loro continuano, di fatto, a soffrire a causa della jihad islamica.
Le ostilità, infatti, hanno assunto una nuova forma anche se i persecutori hanno per lo più il medesimo volto e la medesima mente. Per esempio, ex-membri dell’ISIS si sono inseriti in posizioni di governo a livello locali e nelle milizie sciite sostenute dal regime iraniano che controllano le città e i villaggi in cui vivono i cristiani.
Avendo visitato nel novembre 2018 la città di Mosul devastata dalla guerra — una delle prime regioni del mondo ad accogliere il messaggio del cristianesimo — ho avuto l’opportunità di parlare con un certo numero di cristiani residenti nel settore di Nineveh, nelle altre città e villaggi che circondano Mosul. Essi concordano sul fatto che la drastica riduzione della popolazione, quasi una desertificazione, post-ISIS, sia sostanzialmente dovuta alla non volontà, da parte della comunità internazionale, di riconoscere il problema islamico in quanto i non musulmani sono considerati come individui di seconda classe unicamente da conquistare come prescritto dal Corano:
“Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi politeisti [i cristiani, gli ebrei e altri non-musulmani] ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la jizya [decima], lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore e misericordioso”. —Sura 9, 5
Ad Erbil, la capitale del Kurdistan, che è autonoma dal governo centrale iracheno e che è forse la regione più sicura di tutto l’Iraq, molti cristiani subiscono soprusi di vario genere: le donne cristiane sono importunate perché non indossano la hijab (la sciarpa che copre la testa) e, poiché i musulmani hanno sempre la preferenza, si genera una forte disoccupazione e una scarsa uguaglianza davanti alla legge civile.
A Karamless — 28 chilometri sudest da Mosul — oggi abitano solo un centinaio di famiglie cristiane sulle oltre ottocento ivi stanziate prima dell’occupazione dell’ISIS; i gruppi sciiti, come gli Shabak, poiché ora sono più numerosi, si sono appropriati della quasi totalità degli spazi ancora utilizzabili provando ad imporre la legge e la cultura islamica. Altri che sono aiutati dai finanziamenti governativi per la ricostruzione delle case, si son pure insediati nelle proprietà dei cristiani.
Molti sperano che la loro lotta per resistere riceva una spinta da una storica visita di Papa Francesco.
La visita del Vescovo di Roma, il suo primo viaggio all’estero dopo la pandemia del COVID’19 e il primo in assoluto da parte di un papa in Iraq, è un segno che “non sei solo”, ha detto monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. “C’è qualcuno che ti sta pensando, che è con te. E questi segni sono veramente importanti”.
Queste parole possano dare un po’ di conforto, però, i cristiani hanno bisogno di più. Per poter risolvere la crisi dei cristiani iracheni con successo, bisogna che la comunità internazionale, incluso il Vaticano, riconosca che sia il terrorismo islamico che la disuguaglianza tra musulmano e non musulmano e tra uomo e donna è fondata sui testi islamici. In altre parole, come ha detto nel 2018 il segretario generale del Consiglio supremo del Nahdlatul Ulama — la più grande organizzazione musulmana del mondo — l’Imam Yahya Cholil Staquf: «Il problema è nell’Islam stesso».