di Francesco Vermigli · Cosa pensiamo, quando pensiamo alla riforma della Chiesa? Che cosa abbiamo in mente, quando riflettiamo sulla necessità per la Chiesa di interrogarsi sulla propria forma concreta, sulla propria articolazione storica? Difficilmente il cristiano di oggi avrà in mente l’epoca dei cavalieri e delle grandi lotte tra il potere politico e quello ecclesiastico; quella stagione che fu segnata dallo scisma d’Oriente e dalle reciproche scomuniche da Oriente a Occidente e viceversa; l’epoca in cui la Chiesa acquista una configurazione gerarchica che permarrà nel corso dei secoli, i secoli duri e puri del guelfismo e della ierocrazia bonifaciana.
Questo è l’XI secolo e questa è l’epoca che ogni storico conosce proprio come caratterizzata da una riforma decisiva per la storia della Chiesa: l’epoca della “Riforma gregoriana”, dal nome di quel campione della politica ecclesiastica che fu Ildebrando di Sovana, papa Gregorio VII. E quando si pensa alla riforma della Chiesa di quel periodo, probabilmente non verrà in mente il nome di Pier Damiani, che sarà forse conosciuto ai più per la sua ascesi e la radicale regolazione della vita monastica, per il suo durissimo Liber Gomorrhianus o per il fatto che Dante consacra a lui quasi un intero canto del Paradiso, il XXI. Parrà ai più impossibile che colui che fu il mentore di una nuova regolazione della vita religiosa possa annoverarsi tra coloro che ebbero un ruolo decisivo in quella Riforma che sarà detta “gregoriana”.
Qualcuno dirà che non si può associare Pier Damiani alla Riforma di Gregorio, anche semplicemente per il fatto che quando Ildebrando diventerà papa, lo stesso Pier Damiani era morto da circa un anno. Altri invece diranno che Pier Damiani non possa essere annoverato in quel movimento, perché altri erano gli obbiettivi del suo pensiero e della sua prassi, rispetto a quelli di Gregorio e dei suoi predecessori. Ma questa posizione dimentica che storicamente ciò non avvenne. Perché, anzi, Pier Damiani fu il rappresentante del mondo monastico che maggiormente svolse un ruolo, per così dire, “ideologico” in favore della riforma che da Leone IX giunse fino a Gregorio VII.
Come dunque fu possibile che un monaco ad un tempo versato in lettere e dalla forte connotazione ascetica sia stato all’origine di una riforma che oggi verrebbe definita clericale e gerarchica della Chiesa?
Accadde che la riforma che va sotto il nome del papa che maggiormente segnò quel secolo sia passata attraverso una forte identificazione di fronte al potere politico. Il potere politico dell’alto e del pieno medioevo è un potere che si ammanta dei simboli del sacro, in particolare il potere imperiale rivendica un ruolo dirimente nella scelta dei vescovi; sorta di versione occidentale e latino-germanica del cesaropapismo bizantino. La libertas Ecclesiae è la parola d’ordine della Chiesa dell’XI secolo, contro un potere che rivendicava per sé uno spazio ulteriore a quello temporale. La storia della Riforma gregoriana è la storia della limitazione del potere temporale entro i limiti della secolarità; tanto che alcuni storici individuano in questo scontro l’origine della laicità dello Stato in Occidente. Gregorio e i suoi epigoni dicono al potere temporale che esso non ha alcuna legittimità a intervenire nelle vicende della Chiesa.
È qui, è proprio qui che interviene il monachesimo e quello di Pier Damiani in particolare. Questo fatto avviene secondo due direttrici principali: lo attesta lo stesso vastissimo epistolario del santo avellanita. Da un lato un’opera capillare di lotta contro la simonia e ogni indebita intromissione del potere politico nella gestione e nella successione degli incarichi ecclesiastici; si pensi solo al ruolo svolto dal medesimo Pier Damiani e da Ildebrando non ancora papa nell’irreggimentazione della pataria milanese contro i simoniaci ambrosiani. Dall’altro lato con la promozione sempre crescente di una visione di prete che trova il suo riferimento primario nel modello monastico; donde, come sappiamo, una certa tendenza che nel corso della storia si è avuta, a pensare il prete come l’uomo solitario che vive dell’ascesi para-monastica.
Che cosa dunque, in conclusione, possiamo prendere da tutte queste vicende? Che cosa può prendere, in particolare, la Chiesa di oggi, che da tanto tempo si va interrogando sulla propria configurazione storica? Innanzitutto, che nessuna riforma della Chiesa potrà mai pensarsi solo a livello strutturale, ma che perché essa possa essere autentica avrà da essere in prima battuta una riforma dei costumi. Che, cioè, non è possibile pensare che la Chiesa si riformi solo attraverso una ristrutturazione delle sue caratteristiche contingenti e storiche; pena il carattere solo transitorio di questa opera di riforma. Infine, le vicende di Pier Damiani e dei papi della sua epoca e della pataria e di ogni movimento popolare teso alla riforma dei costumi del clero insegnano alla Chiesa di oggi che ogni riforma autentica e permanente ha bisogno della collaborazione di ciascun membro del popolo di Dio.