di Leonardo Salutati • Il “Tax Justice Network” fondato nel 2003 nel Regno Unito è un organismo che studia gli effetti nocivi dell’evasione fiscale e dei paradisi fiscali sugli Stati. Lo scorso 20 novembre ha diffuso il suo primo rapporto sullo “Stato della giustizia fiscale 2020”. La ricerca, senza precedenti, ha calcolato nella somma di 427 miliardi di dollari il valore delle tasse sottratte a livello globale in un anno e finite in Paesi a fiscalità agevolata.
Il report, individuando le responsabilità di ogni singolo Paese rispetto alla sottrazione globale, offre una fotografia dell’attuale sistema di tassazione: un meccanismo “programmato per fallire” che penalizza fortemente i Paesi “in via di sviluppo” e alimenta le disuguaglianze. Il capo esecutivo di TJN, ha espressamente dichiarato che: «I responsabili di tale situazione sono gli Stessi Paesi, che non mettono in campo misure efficaci di contrasto all’evasione, perché sotto la pressione delle gigantesche imprese transnazionali e dei paradisi fiscali come i Paesi Bassi e la rete del Regno Unito, hanno programmato il sistema fiscale globale per dare la priorità ai desideri delle aziende e degli individui più ricchi rispetto ai bisogni di tutti gli altri».
L’impatto negativo della perdita di gettito fiscale dovuta all’evasione fiscale delle imprese e dei privati non è mai stato così evidente come oggi, dove la pandemia da COVID 19, salvo poche eccezioni, ha rivelato le conseguenze del sotto-finanziamento dei servizi pubblici sanitari, entrati velocemente in crisi. In Italia, per esempio, l’ammontare della perdita fiscale garantirebbe la copertura economica dello stipendio annuale di circa 380.000 infermieri.
Però, se le perdite fiscali del Nord America e dell’Europa equivalgono rispettivamente al 5,7% e al 12,6% dei bilanci sanitari, quelle dell’America Latina e dell’Africa raggiungono invece rispettivamente il 20,4% e il 52,5%. Cifre significative che rivelano un impatto sociale drammaticamente diseguale tra Paesi a reddito elevato e quelli in via di sviluppo.
Lo studio individua poi i cinque soggetti maggiormente responsabili delle perdite fiscali globali. Al primo posto si colloca il territorio britannico delle Cayman, seguito dal Regno Unito, Paesi Bassi, Lussemburgo e Stati Uniti (5,5%). Di questi, paradossalmente, nessuno compare nella “lista nera” dei paradisi fiscali adottata dall’Unione Europea, che invece si concentra su altri paradisi fiscali “che svolgono un ruolo insignificante nell’economia globale”, essendo responsabili solamente del 2% dell’evasione globale.
Il Rapporto contiene innumerevoli altri dati e statistiche. Quanto qui appena accennato ci pare però sufficiente per cogliere la gravità del fenomeno. È infatti evidente che i flussi finanziari verso i paradisi fiscali minacciano il bene comune, perché compromettono la riscossione delle tasse necessarie per consentire alle amministrazioni pubbliche di offrire i servizi necessari a soddisfare i bisogni primari (pensioni, istruzione, sanità ecc.) e ottenere coesione sociale; spostano il carico fiscale delle imposte dal capitale al lavoro e al consumo; indeboliscono il binomio risparmio-investimento che svolge un ruolo fondamentale per le dinamiche produttive e la creazione di posti di lavoro; inoltre, in forza della loro opacità, i paradisi fiscali facilitano l’occultamento di denaro e di beni che provengono da attività illegali.
La Dottrina Sociale della Chiesa è stata, come al solito, profeta inascoltato nel richiamare l’attenzione sul fenomeno e nell’anticipare le sue gravi conseguenze fin dalla Quadragesimo anno del 1931 di Pio XI, che richiama l’attenzione sul «funesto ed esecrabile, internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (n. 109). Benedetto XVI nella Caritas in veritate del 2009 analizza con precisione il fenomeno della delocalizzazione delle imprese in termini di «riduzione delle reti di sicurezza sociale (…) con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale», ricordando «ai governanti (…) che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità» (n. 25; cf. n. 40). Il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, nel 2011 già anticipava il dibattito sulla necessità di una nuova architettura fiscale. Ma soprattutto Giovanni Paolo II nel 1984, in Reconciliatio et paenitentia richiamava alla conversione dal peccato sociale ovvero «certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni» che «sono il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali», anche «di chi, potendo fare qualcosa per evitare (…) certi mali sociali, omette di farlo» (n. 16). «Esiste una spaventosa forza di attrazione del male che fa giudicare ‘normali’ e ‘inevitabili’ molti atteggiamenti. Il male si accresce e preme con effetti devastanti sulle coscienze, che rimangono disorientate e non sono neppure in grado di discernere. (…) strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più svantaggiati sotto il profilo economico e politico» (Giovanni Paolo II, Udienza 1999).
Una situazione che può generare un senso di impotenza che, però, la prospettiva cristiana è in grado di superare grazie all’annuncio della vittoria di Cristo sul male (cf. ibidem).