Don Corso Guicciardini, successore del venerabile Giulio Facibeni, si è spento a Firenze.

275 183 Carlo Parenti
  • 0

di Carlo Parenti · Don Corso Guicciardini, nato il 12 giugno del 1924, si è spento il 5 novembre u.s. nell’ospedale fiorentino di Careggi dove era ricoverato per Cornavirus. Il Venerabile don Giulio Facibeni lo scelse come suo erede spirituale per proseguire dal 1958 la guida dell’Opera Madonnina del Grappa. E don Corso, col coraggio della fede e guardando sempre avanti, ha coltivato il sogno di don Giulio Facibeni: «Sogno che non è un’illusione, ma un preciso programma di giustizia e carità cristiana». Grazie a Lui noi continueremo a sognare un mondo di amore.

La sua vocazione è stata originata da alcuni colloqui che ebbe giovinetto con Giorgio La Pira.

Me lo ha raccontato lui in una serie di incontri –un autentico dono- che ho avuto dal 27 febbraio al 29 maggio 2017: «mi rendo conto del valore di quei giorni e dell’esperienza che ho fatto con La Pira. Meravigliosa, perché La Pira aveva il pregio unico di legare la storia del tempo e le sue prove con la Sua vita di Fede. La Pira ci ha coinvolto nel problema della nostra Fede e inevitabilmente ci ha portato a decidere perché questa Fede non fosse passata fuori da un vero e proprio problema di coscienza cristiana. Riconosco che La Pira con il Suo affetto e con la Sua comunicazione fraterna mi ha portato al di là di me stesso e mi ha coinvolto, appunto, in un problema di Fede da attuare…Quando incontrai La Pira a Fonterutoli, dai Mazzei dove si era rifugiato nell’estate del 1944, per sfuggire ai repubblichini che lo volevano arrestare,il professore mi chiamò nella sua camera – al secondo piano c’aveva una camera – con un letto proprio di quelli famosi, tradizionali che s’usavano in campagna, di ferro battuto. Si sedette sul letto. Io mi appoggiai alla spalliera. Mi parlò di prepararsi bene per dedicare la vita all’annuncio del Signore. Sicché mi parlò della vocazione, ma più che della vocazione mi parlò di diventare apostolo del Signore…Lo ascoltai, però lui mi fece una chiamata…Quando tornò da Roma dopo la liberazione in agosto di Firenze Lui mi ripropose il problema della vocazione. Pensa un poco! [lo disse con enfasi e ritrasmette a distanza di tanto tempo tutta la meraviglia ed anche la soddisfazione per l’importanza del fatto]. E io gli dissi:”Professore io non le posso rispondere, perché io ho già deciso. Ho già deciso! Ma ora io non le posso rispondere come”. Io avevo deciso che mi sarei fatto sacerdote. Ma non glielo dissi, perché non l’avevo nemmeno comunicato alla mia famiglia. E non potevo dirgli, non gli dissi. Però la mia non era una vocazione laicale (come la sua) perché io non ero fatto per la vocazione laicale. È chiaro: per fare la vocazione laicale, il missionario laico, ci vuole delle qualità particolari che non erano le mie, erano assolutamente fuori dalla mia portata! Sicché io non gli dissi nulla, ma lui non insistette. Capito? Tutto qui!».

Gli incontri che ho avuto con don Corso furono originati dal desiderio di incontrarlo per ringraziarlo di una bella lettera che mi aveva inviato il 29 dicembre 2016, dopo aver letto un mio lavoro su Giorgio La Pira. Avevo visto don Corso tante volte dagli anni ’70 quando frequentavo intensamente don Carlo Zaccaro, sacerdote dell’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa” fondata nel 1923 da don Giulio Facibeni. Ma, sembra impossibile, al di là di rapidi saluti non gli avevo mai davvero parlato. Di lui il ricordo più intenso era legato alla notte tra il 5 e 6 novembre 1977 quando don Giuseppe Dossetti, don Corso Guicciardini e don Carlo Zaccaro concelebrarono di fronte al corpo di Giorgio La Pira la prima messa funebre per il sindaco santo che era volato in Paradiso.

E per me non è un caso, ma un segno, che Corso abbia raggiunto in paradiso il professore proprio il 5 novembre di questo 2020. Quel professore che aveva conosciuto alle conferenze della San Vincenzo dei Paoli dove il giovane, ricchissimo e nobile Corso conobbe i poveri. Infatti Corso nacque conte nella famiglia Guicciardini Corsi Salviati. Il titolo di conte (conte palatino) risale al 1416. Fu conferito dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo a Piero Guicciardini bisnonno dello storico Francesco e di Girolamo dal quale discende il ramo che ha portato poi a Giulio, babbo di Corso e importante esponente del Partito Popolare.

Proprio l’incontro coi poveri contribuì alla scelta del Guicciardini!Ecco la sue parole: «Perché poi da sacerdote sono entrato nell’Opera? Perché c’era la povertà, perché era un elemento che il Vangelo faceva affiorare nella mia coscienza. Non si può vivere il Vangelo senza abbracciare la povertà! I poveri… ti rivoluzionano il mondo interiore, perché ti fanno capire che non sei nulla, che non sei nulla! Un oceano di bisogni. Te ti avvicini e ti assorbono, ti prendono tutto, ti trasformano. Essere cristiani non è il chiedere a Dio quello che noi vogliamo da Lui, ma è fare quello che Lui vuole da noi. Spogliarsi di tutto per essere Suoi strumenti di misericordia e carità». Queste dunque le risposte di don Corso Guicciardini Corsi Salviati alla tragedia della vita, alla tragedia della povertà. Crescere [arricchendosi] in povertà. La rinunzia alla ricchezza è la vera ricchezza. E Corso ebbe la miracolosa capacità di un ricco di passare attraverso la cruna dell’ago, vincendo la sfida del Vangelo. Oggi, nella nostra società dove l’apparire è più importante dell’essere, dove la formazione della personalità avviene addirittura anche per mezzo di tecniche che vengono insegnate al fine specifico di sopraffare il prossimo nell’esaltazione suprema del sé, del proprio egocentrismo, risulta quasi incomprensibile il cammino spirituale di don Facibeni e di don Guicciardini. Uomini che per tutta la vita hanno inseguito l’annientamento del proprio io nella carità e nella misericordia fino ad accettare di essere servi inutili in una tensione di anime che «ottengono la vittoria su se stessi, dominando le passioni […] stroncando il proprio io». Ma questa rinuncia ha generato «fatti e non parole» per tante «povere creature» che soffrivano la «miseria e l’abbandono». Davvero gli ultimi. (NdA: questi ultimi corsivi sono parole di don Facibeni.)

Insieme a don Facibeni nella Madonnina del Grappa Don Corso conobbe la presenza della Provvidenza! Il racconto di quel che la Madonnina grazie alla Provvidenza ha compiuto e compie è sterminato, così come è sterminato il bene fatto da don Corso. Non si può raccontare in una pagina. Mi concentro sull’essenza.

Don Facibeni un giorno raccontò a Corso una meditazione tratta da un libro di un gesuita, Peter Lippert, al riguardo della sua esperienza di Dio. Lippert al termine della prima guerra mondiale guarda le macerie di una città tedesca, alte anche venti metri. Tutto, tutto distrutto. Lo scrittore continua: «Dio dove sei, dove sei Dio; non Ti vedo! Sei scomparso, è tutto distrutto, tutto!». Però la meditazione seguita e lui scopre che Dio è nelle sue braccia, nelle sue mani, nei suoi occhi, nella sua mente e nel suo cuore. «Ecco dove sei Dio! Sono io, sono io che devo diventare strumento della Tua azione, della Tua volontà di salvezza, del Tuo amore».

Don Facibeni, provato dalla tragedia della prima guerra mondiale, non riuscì più a dimenticare le tragedie, le violenze, il sangue versato, la vista della morte di tanti giovani. Trovò una risposta a tanti orrori nel diventare umile strumento dell’azione, della volontà di salvezza, dell’amore di Dio col quale era in mistica unione. Così – mi ha spiegato don Corso- nacque l’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa” che sopravvisse solo grazie al suo totale abbandono nella Provvidenza. «…e quando meno se l’aspettava la Provvidenza lo sorprendeva, con le sue delicatezze materne. Il Padre era certamente preso dentro la morsa dell’azione divina». «Nella Provvidenza aveva una grande stima. La Provvidenza era in grado di provvedere a tutte le sue scelte». Don Facibeni diceva: «Non credo più nella Provvidenza, Perché la vedo, la tocco con mano», «Tu non la conosci la Provvidenza, perché fa soffrire, però ha delle delicatezze materne»: e in questo abbandono nella Provvidenza respirava la sua anima.

Papa Francesco nell’Esortazione Gaudete et Exsultate, sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, indica un percorso del quale le esperienze di “carità” di don Giulio e di don Corso sono un esempio luminoso.

Una notazione personale. Don Corso nei suoi colloqui con me (che ho documentato integralmente altrove) mi ha narrato anche episodi inediti di nobili famiglie fiorentine. Oltre a La Pira, decisivo per la sua vocazione, mi ha parlato di Pio XII; di Dalla Costa, Bensi, Bartoletti, Milani e dei sacerdoti francesi del Prado e di quelli dell’Opera facibeniana. Mi ha così dipinto un affresco tra due secoli della storia d’Italia aprendomi orizzonti sul futuro della «nostra umanità vulnerabile».

Ma quello che davvero ha generato in me il suo inaspettato corso di spiritualità è che ha veramente cambiato il mio essere credente.

Mi soccorrono delle parole di papa Francesco (Udienza Generale di mercoledì, 27 dicembre 2017): “Gesù è il dono di Dio per noi e, se lo accogliamo, anche noi possiamo diventarlo per gli altri – essere dono di Dio per gli altri – prima di tutto per coloro che non hanno mai sperimentato attenzione e tenerezza. Ma quanta gente nella propria vita mai ha sperimentato una carezza, un’attenzione di amore, un gesto di tenerezza?

Grazie Don Corso, continua a volerci bene e noi ti ricorderemo volendoci bene.

image_pdfimage_print