di Francesco Romano • Questo antico aforisma spesso rispolverato con diversi intenti ci offre lo spunto per riflettere su certe distorsioni con cui la normativa canonica possa essere acriticamente letta da alcuni, non di rado per una non sufficiente preparazione giuridica nel fare uso del codice.
Il voto di povertà non è né uniforme né omogeneo nelle differenti forme di vita consacrata. Infatti, l’oggetto proprio dei vincoli sacri deve essere specificato dalle costituzioni di ciascun istituto (can. 587 §1). Lo spessore e la differenza del voto di povertà tra un istituto religioso e l’altro, pur appartenendo alla stessa forma di vita consacrata, sono desumibili soltanto dalla specifica “natura” del singolo istituto. Come vedremo, soltanto alcuni religiosi abbracciano la povertà radicale.
Lo scopo di questo articolo è di aiutare a evitare che i religiosi che abbracciano la povertà radicale si vedano attribuire in modo surrettizio, con disposizioni contra legem interne al proprio istituto, lo ius possidendi che avevano perso con la professione solenne. Per una conoscenza più approfondita rimandiamo a un nostro studio pubblicato su Teresianum 70 (1/2019) 195-236.
La libertà di possedere e disporre dei propri beni per ogni uomo è un diritto originario (can. 1299 §1), ma il diritto canonico con gradualità lo può regolare come avviene nel caso del consacrato religioso (can. 668 §§1-5). Di conseguenza, anche l’essere religiosi non significa per tutti essere poveri nella stessa misura. Tutto dipende dalla “natura dell’istituto” di appartenenza e dal tipo di povertà che lo connota. è certo, però, che all’interno di uno stesso istituto che prevede la povertà radicale, tutti i religiosi che vi fanno parte dovranno essere radicalmente poveri allo stesso modo fino a estinguere quelle differenze che potrebbero derivare da fortune personali o patrimoniali di origine familiare ecc. Vi sono poi istituti religiosi in cui per loro natura il voto di povertà non viene assunto in modo radicale permettendo ai propri membri di continuare a conservare l’intestazione della proprietà dei beni anche dopo la professione perpetua.
Questa premessa ci introduce alla comprensione delle due figure giuridiche richiamate dal can. 668, il “testamento” e la “rinuncia” ai beni. Purtroppo non è inusuale constatare che in alcuni istituti le disposizioni capitolari con molta superficialità chiedono ai religiosi di voti solenni di redigere un testamento sia prima di emettere la professione solenne che successivamente.
I membri degli istituti religiosi entrano a farvi parte definitivamente con la professione dei voti pubblici e perpetui. Però il voto di povertà non ha la stessa valenza per tutti. La differenza è desumibile dallo stesso can. 668 §§4, 5 che indica la “natura dell’istituto” come criterio di distinzione.
Vi sono istituti religiosi che permettono ai propri membri di conservare in misura più o meno ampia la capacità di possedere continuando a essere proprietari di un bene che possedevano prima di entrare a far parte dello status di consacrati e per questo a loro è chiesto di fare il testamento (can. 668 §1). Storicamente si tratta di quegli istituti, perlopiù sorti tra il xix e xx secolo, che fino al previgente Codice di Diritto Canonico prendevano il nome di Congregazioni, i cui membri ancora oggi professano i voti semplici perpetui.
In altri istituti, come gli Ordini religiosi e i monasteri femminili di clausura, da sempre si professano i voti solenni che per loro “natura” richiedono il voto di povertà radicale comportando la “rinuncia” radicale ai beni e la perdita totale della capacità di essere proprietario, di possedere e di acquistare nuovi beni (can. 668 §5). Per questo motivo con la professione solenne il religioso fa la rinuncia piena ai beni (can. 668 §4) e non il testamento, in quanto questo istituto giuridico gli riconoscerebbe per tutto l’arco della sua vita il diritto di proprietà sui beni da destinare agli eredi dopo la sua morte.
Per questo motivo il can. 668 §1 dispone che il religioso che sarà soggetto alla povertà radicale con la professione solenne, ha la facoltà di redigere il testamento soltanto durante i voti temporanei in quanto questo atto è compatibile con la sua situazione ancora transeunte, non soggetta alla povertà radicale, mentre prima della professione solenne dovrà fare la rinuncia piena ai propri beni per esigenza intrinseca richiesta dalla natura dell’istituto che lo incorpora definitivamente (can. 668 §4).
In ogni caso il Legislatore canonico dispone che a coloro cui è riconosciuta la possibilità di redigere un testamento lo facciano in modo da poter essere valido secondo il diritto civile (can. 668 §1). L’obbligo di osservare la legge civile nella redazione del testamento prevista dal diritto canonico è un’esigenza inderogabile, almeno se vogliamo che si realizzino gli effetti da perseguire che gli sono propri.
Il testamento è un negozio giuridico mortis causa, ovvero “un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parti di esse” (art. 587, cod. civile). L’erede, oltre a essere il destinatario dei beni del testatore, è il continuatore della personalità del defunto.
Uno degli elementi che potrebbe viziare e quindi invalidare i suddetti atti, come nel caso del testamento redatto da un religioso, è dato dalla carenza del requisito irrinunciabile della totale libertà del testatore nell’apportare una variazione o nel deciderne la revoca. La volontà testamentaria non può essere assoggettata a nessuna autorità o volontà altrui sia per quanto riguarda l’oggetto del testamento, la sua redazione, revoca o modifica. Fondamentale è anche che la volontà sia spontanea.
L’ordinamento canonico riconosce e assume la legge civile in materia di testamento e di rinuncia ai beni quale sua fonte sussidiaria. Tuttavia, l’autonomia testamentaria del religioso, non solo iniziale, ma anche successiva alla stesura, per l’intero arco della sua vita resta subordinata al permesso che gli deve concedere il suo superiore per apportare modifiche (can. 668 §2). Ciò finisce per invalidare l’atto in radice, cioè fin dal suo sorgere. Questo dettaglio non è di poco conto e potrebbe aprire vertenze giudiziarie interminabili.
Il punto centrale che interessa la nostra riflessione vuole evidenziare che soltanto a seguito della morte del testatore si ha l’apertura della successione ereditaria. Con l’accettazione l’erede chiamato a succedere acquista il diritto sull’eredità con effetto retroattivo dal giorno dell’apertura della successione.
Per la validità del testamento secondo il diritto civile finché il de cuius permane in vita i beni che ha destinato ad altri restano di sua proprietà di cui potrà disporre come vuole e quando vuole in qualsiasi momento. Inoltre, il testamento resta un atto da lui essenzialmente e liberamente revocabile o modificabile in ogni momento fino al termine della sua vita. Perciò, la morte del testatore è l’elemento fondamentale del testamento per iniziare a produrre la sua efficacia.
La conclusione di questa esposizione ci porta a dire che il religioso che professa il consiglio evangelico della povertà con voto solenne fa una scelta radicale che annulla il suo ius possidendi e gli impone la rinuncia ai beni. Chiedere al religioso prima o dopo la sua professione solenne di scrivere e depositare il testamento significa obbligarlo a contravvenire al voto di povertà radicale e, anziché rinunciare totalmente ai beni, a conservarli a suo nome, pur cedendo ad altri l’amministrazione.
Secondo punto di questa conclusione è che il testamento di un religioso redatto tenendo conto delle condizioni poste dal diritto canonico potrà avere sempre dei punti critici sufficienti per essere impugnato da altri eredi concorrenti dal momento che il diritto canonico non riconosce la piena autonomia al de cuius religioso essendo assoggettato all’autorizzazione del superiore competente per apportare variazioni alle sue ultime volontà.
L’aforisma con cui abbiamo intitolato questo articolo “Il convento è povero, ma i frati sono ricchi” sembra risalire a una delle note facezie del Pievano Arlotto ed è stato da noi scelto come sintesi perfetta per spiegare quanto una norma possa essere chiara nella sua scrittura, ma contraddittoria nella sua applicazione.