di Francesco Vermigli · È sotto gli occhi di tutti come in tempi di pandemia la Chiesa abbia dovuto non poco rimodulare l’accesso dei fedeli ai sacramenti. È stato detto che lo abbia fatto per limitare la diffusione del contagio; come senso di responsabilità nei confronti dell’umanità, afflitta dall’emergenza sanitaria e civile. Si è intesa questa responsabilità come segno di carità nei confronti degli uomini; introducendo già qui – in un modo più o meno consapevole – un principio teologico e non solo pratico, per giustificare la necessità di tale riadattamento della vita sacramentale. È stato poi detto che “Dio è ovunque”, che “Dio non si lega ad un luogo”… lo si è detto per confortare gli stessi fedeli, non poco disorientati da questa situazione inedita.
Sorprende che – almeno per quanto ci consta – non sia stato preso in considerazione a sufficienza un principio scolastico che ha avuto una certa fortuna nella storia della teologia: il principio sancito dalle parole Deus non alligatur sacramentis (“Dio non si lega ai sacramenti”). Prima di analizzare più in profondità questo principio, in maniera ancora generica possiamo già dire che con esso si intende che la salvezza che porta Dio, è più vasta dei confini della vita sacramentale.
Tale assioma della teologia si rintraccia in forme lievemente diverse nel campione della Scolastica. A STh, III, q. 64, a. 7, Resp., si legge: «Deus virtutem suam non alligavit sacramentis quin possit sine sacramentis effectum sacramentorum conferre» (“Dio non lega la sua potenza ai sacramenti, Lui che può produrre gli effetti dei sacramenti, senza i medesimi sacramenti”). A STh, III, q. 68, a. 2, Resp. si legge:«Deus interius hominem sanctificat, cuius potentia sacramentis visibilibus non alligatur» (“Dio santifica l’uomo interiormente, Dio la cui potenza non è legata ai sacramenti visibili”).
A quali situazioni si applica questo principio? Si applica innanzitutto al di fuori dei confini della Chiesa: ad esempio la seconda quaestio che abbiamo considerato sopra, si chiede «utrum aliquis possit salvari sine Baptismo» (“se ci si possa salvare senza sacramento”). L’applicazione più immediata del principio pare dunque rivolta alla situazione di coloro che non appartengono alla comunità ecclesiale. D’altra parte sembra davvero difficile che questo principio possa valere per coloro che non appartengono alla comunità ecclesiale, nel caso abbiano consapevolmente rifiutato l’annuncio evangelico. Ma tale principio può applicarsi anche alla situazione di necessità che abbiamo vissuto in questi ultimi due mesi? Può valere, cioè, all’interno della vita della Chiesa, in determinate condizioni? Per rispondere a questa domanda, è necessario prima definire meglio il principio.
Nelle due citazioni dalla Summa di Tommaso le parole che vanno di conserva con il principio, sono le parole virtus e potentia. Sono parole che sembreranno ad un primo sguardo scontate, ma che rimandano ad una dialettica della teologia Scolastica non piccola: quella tra potentia Dei ordinata e potentia Dei absoluta; dove absoluta si deve intendere come “sciolta” dall’economia salvifica ordinata, cioè sciolta dall’economia salvifica regolata dalla volontà divina. Se leggiamo il principio sullo sfondo di questa dialettica, esso si potrebbe banalmente parafrasare in questi termini: “la potenza di Dio può salvare anche senza i sacramenti, ma ordinariamente accade che lo faccia attraverso di essi”.
Ora, i casi più comuni previsti dalla prassi ecclesiale, dal Catechismo, dal diritto canonico per situazioni di eccezionalità vanno proprio nel senso di questa nostra parafrasi. Si pensi alla comunione spirituale. Come abbiamo mostrato in un articolo uscito anni fa in questa rivista (vedi) essa reca con sé il desiderio di tornare a comunicarsi sacramentalmente, non appena vengano a cadere le condizioni che hanno reso necessario comunicarsi solo spiritualmente. O si pensi al caso della contrizione perfetta prevista già dal Concilio di Trento (Denz. 1677) e accolta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1452, di cui ha magistralmente parlato nello scorso numero il padre Francesco Romano: anche qui si nota che la remissione dei peccati mortali è condizionata dall’impegno di ricorrere appena possibile alla confessione sacramentale.
Questi esempi ci conducono a pensare come il principio del Deus non alligatur sacramentis – quando applicato allo stato di eccezionalità all’interno della Chiesa – ottiene uno spazio non piccolo. Ma ci impone questa precisazione, ulteriore rispetto al caso in cui si applichi al di fuori dei confini della Chiesa: che, cioè, ad intra della comunità ecclesiale esso viene meno nel momento in cui verranno a decadere le condizioni di eccezionalità. Questo non perché Dio non possa comunicare la propria vita in altro modo: ma – decadute le condizioni di eccezionalità – Dio non comunicherà la precisa grazia sacramentale eucaristica, se non con la sua presenza corporea e spirituale; non comunicherà la precisa remissione dei peccati gravi, se non attraverso l’assoluzione sacramentale.