Le perplessità di Giovanni Battista. Fragilità e grandezza

353 500 Carlo Nardi
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8 perugino - il battesimo di cristodi Carlo Nardi • Giovanni Battista, ossia “il battezzatore”, ci accompagna nel tempo liturgico del natale. Nella preparazione dell’avvento ci viene incontro come profeta, ossia come chi parla per conto di Dio davanti agli uomini, anzi come profeta specialissimo. Con lui infatti si conclude il tempo della legge, l’Antico Testamento, e s’inaugura il tempo della grazia: grazia, dono che è lo stesso Signore Gesù Cristo, che Giovanni addita come l’agnello di Dio a prendere su di sé il peccato del mondo per distruggerlo nella sua carne, ossia nella sua umanità offerta al Padre per noi.

Proprio per questo Giovanni “il battezzatore” ci visita di nuovo nel tempo dell’Epifania, in quella “manifestazione” della Trinità santissima al Giordano attorno alla sua seconda Persona, il Cristo, agnello di Dio, salvatore, anzi redentore, “riscattatore”.

Ed essendo Gesù compimento e pienezza, a seguito dell’indicazione di Giovanni “È lui, Gesù, l’agnello di Dio”, due suoi discepoli lo lasciano di punto in bianco per andare dietro – la cosiddetta sequela – a quell’uomo di Nazareth. È quello che Giovanni aveva voluto, dichiarando a chiara voce che Gesù è il redentore. Eppure Giovanni si vede privato della presenza dei suoi due pupilli. È una spoliazione, un deserto interiore, come la solitudine a cui si è votato. Giovanni – lo dice Gesù – è l’amico che gioisce per la gioia dello sposo che non gli appartiene, perché appartiene a lei, la sposa, la chiesa di cui sono ormai parte i due discepoli del solitario profeta che giustamente lo hanno lasciato per Gesù. Difatti Giovanni è l’annunciatore, l’araldo, “il precursore”, “il paraninfo” e perciò deve diminuire, ritirarsi, rattrappirsi, di fronte a Gesù che deve crescere. Il che da parte di Giovanni è un po’ morire.

La figura del Battista è infatti velata di contenuta tristezza, inondata di malinconia acuita da un crescendo di solitudine. Nei Vangeli secondo Matteo (11,2-15) e Luca (7,18-25) c’è un altro tipo di spoliazione: è la prova della fede di lui, profeta addirittura del Messia presente. Non solo. Quella prova ha a che vedere con effetti collaterali attivati dalla sua coerenza di messo di Dio, dal suo zelo per le cose di Dio; per quel “Non ti è lecito” da lui detto, senza peli sulla lingua, al re Erode Antipa: “non ti è lecito” stare insieme a la moglie di tuo fratello. Il che, dopo alcuni tentennamenti, fa scattare da parte del re la prigione per Giovanni: qualcosa che si possa bollare come lesa maestà ci vuol poco a trovarlo o inventarlo.

Giovanni dalla prigione invia dei messi a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”. Un “altro” che cosa? Il Messia, il riscattatore, il liberatore, il salvatore con i vari significati che a queste e simili parole si davano. Nei primi del Novecento c’era chi si peritava ad attribuire a Giovanni, tutto d’un pezzo, oscillazioni, vacillamenti, perplessità, dubbi, oscurità, pensieri tormentosi. Ma – mi vien da dire – altra cosa è una solitudine scelta, altro un carcere imposto, e insieme conseguenza della sua fedeltà a Dio e al suo Messia: situazioni sconcertanti, destabilizzanti. Gesù, con la sua risposta a Giovanni tramite quei messaggeri, lo ammonisce a non trovare il lui, il Salvatore, motivi d’inciampo in un cammino di fede perseverante. Un implicito rimprovero? Uno spunto per pensare, ripensare, specialmente alla luce di quel che segue: Gesù dice che Giovanni è il più grande tra i figli d’uomo. Lo dice con un apprezzamento, con una lode, lui che conosce gli angoli bui presenti anche nel Battista. E Gesù, facendo e dicendo, c’insegna che una lode è più efficace di un rimprovero. Quella lode accompagnò Giovanni fino alla morte? Certo fino alla sua decapitazione da parte dello stesso re per la fedeltà alla volontà di Dio. Se questa non è fede!

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