di Francesco Vermigli • Il nome di Pierre Batiffol (1861-1929) – di cui quest’anno ricorrono i novant’anni dalla morte – è iscritto come pochi nella storia della Chiesa francese a cavallo tra l’800 e il ‘900. Egli fu ordinato sacerdote sulpiziano nel 1884, quindi dal 1898 fu rettore dell’Institut catholique di Tolosa, sua città natale. Assieme al padre Lagrange fondò nel 1892 la Revue Biblique, rivista espressione dell’École Biblique di Gerusalemme – fiore all’occhiello degli studi biblici nel mondo cattolico – e nel 1899 a Tolosa creò il Bulletin de littérature ecclésiastique. Fu autore prolifico, uomo di grande intraprendenza scientifica: nella storia della Chiesa subì a Parigi l’influsso del grande storico Louis Duchesne; in archeologia, invece, conobbe a Roma Giovanni Battista de’ Rossi, il cui nome è associato alla stagione dei grandi scavi nell’Urbe ottocentesca.
A partire dal 1905 e ancora di più dal 1907 (anno di promulgazione prima del decreto del Sant’Uffizio Lamentabili, quindi dell’enciclica Pascendi Dominici Gregis di papa Pio X), alcuni suoi studi a carattere storico-teologico attirarono l’attenzione e – in qualche modo associato a quel movimento di pensiero che va sotto il nome di “modernismo” – dovette abbandonare il rettorato a Tolosa. Morì nel 1929 a Parigi, sua città d’elezione.
Batiffol visse la complessità di un’epoca di passaggio come quella tra XIX e XX secolo. Gli anni della sua fioritura ecclesiastica e scientifica sono gli anni di un’Europa che va incontro alla Grande Guerra senza una minima capacità prognostica. È l’epoca detta bella, perché segnata dal positivismo scientista, dalle innovazioni della tecnica e dalle meraviglie celebrate nell’Esposizione Universale di Parigi del 1889; ma è l’epoca che si illude di pace e serenità: accadde come quando il fuoco cova sotto la cenere. L’epoca che si compiace del piccolo mondo antico alla Fogazzaro, è l’epoca che alla fine con lo stesso Fogazzaro lo supera e lo rinnega negli ultimi anni del secolo lungo dell’800; secolo che secondo Hobsbawm si chiude in quello spartiacque di sangue che fu il 1914.
Quello che accade al Vecchio Continente, accade anche alla vita del Batiffol: cova sotto la cenere il fuoco antimodernista e non v’è autore ecclesiastico teso alla conciliazione tra scienze storiche e fede che se n’accorga. La tempesta antimodernista cade dunque sulla testa del nostro prete sulpiziano, a cui, par di capire, veniva rimproverata un’eccessiva indulgenza per gli studi storici nelle scienze ecclesiastiche. Tanto che il padre Lagrange fu calorosamente invitato dal proprio ordine domenicano a tagliare ogni rapporto con Batiffol; pena il discredito e l’aurea modernista sopra l’Ecole Biblique e la sua rivista. Insomma, quello che accadde con la Grande Guerra, accadde con qualche anno di anticipo nella storia della Chiesa.
Ma quale cifra contraddistingue la figura e l’opera del Batiffol? Si direbbe che egli esprima al meglio le potenzialità dell’applicazione alle scienze ecclesiastiche del metodo storico e positivo. Basti pensare a quale ruolo abbia svolto nella storiografia il suo approfondimento sul primato petrino, cui ha consacrato tanto Le Siège apostolique del 1924, quanto il postumo Cathedra Petri: eterogenesi dei fini, si direbbe, come attesta la frequente citazione del nostro sulpiziano ad opera di quel grande appassionato della cultura francese che fu Paolo VI; proprio lui, Batiffol, che aveva subito una forma di proscrizione dall’insegnamento ad opera della gerarchia ecclesiastica che si riconosceva nel Sodalitium Pianum. Sarebbe un errore non vedere in queste vicende gli albori della fioritura dei grandi movimenti teologici del XX secolo, da quello biblico a quello liturgico, fino a quello patristico.
Del resto nella biografia del Batiffol si intravede, almeno in lontananza, anche un rischio non piccolo per la teologia e per tutte le scienze ecclesiastiche: il rischio cioè che la storia del dogma diventi una storia qualsiasi, storia di un’istituzione qualsiasi, per uno scopo meramente conoscitivo del passato di una istituzione qualsiasi. Dogma e storia della Chiesa dicono che nessuna scienza potrà mai attingere completamente il mistero irriducibile ad ogni studio positivo – e in ultima istanza insondabile ad ogni studio – dell’identità profonda (profonda, perché teo-logica) della comunità dei credenti.
Parlare di storia della Chiesa, della sua costituzione gerarchica, delle vicende spesso assai mosse e complesse dei suoi dogmi, in generale parlare della vita della Chiesa che crede, significa alludere ad un nucleo identitario intimo e misterioso. Nella Chiesa intesa come mistero di comunione che trova origine dalla Trinità e alla Trinità ritorna, vale il principio secondo il quale il simile conosce il simile: solo la Chiesa può parlare in pienezza di sé, solo la Chiesa, non una qualsiasi disciplina storica, sarà capace di cogliere la propria identità profonda. La storia della Chiesa, se pensata in questi termini, diventa l’autobiografia che la Chiesa scrive di sé.