di Francesco Vermigli • Tutto inizia su un autobus. La scena è surreale: una fermata, gente litigiosa in attesa che combatte per salire e poi in alcuni casi decide di non salire; l’autobus che arriva, un uomo che vi sale e che vola sopra una città in apparenza sconfinata, in un’atmosfera rarefatta e grigia, sotto un cielo denso. Così comincia Il grande divorzio. Un sogno, opera che Clive Staples Lewis scrisse nel 1946.
Il narratore del libro è un Dante qualunque e anonimo dell’Inghilterra novecentesca: giunge in una prateria immensa e verdeggiante, laddove si imbatte in personaggi a lui perlopiù sconosciuti e che discutono tra di loro. Vi viene condotto dallo spirito di George MacDonald, romanziere scozzese di genere fantastico, morto all’alba del ‘900: qui il narratore viene introdotto da questa sorta di Virgilio dei tempi moderni ai misteri e alla stravaganze di tale landa verde e fiorente, meta surreale di un viaggio surreale. O almeno questa è la prima impressione che si prende, dal momento che lentamente il dialogo tra il narratore e il suo Virgilio – e quelli assai animati tra i personaggi che MacDonald invita il narratore ad ascoltare – svela sempre più del punto da cui tutto è partito e della meta cui giunge l’autobus.
Sulla scena compaiono personaggi che si distinguono per la loro consistenza materiale: da una parte spiriti che spiriti secondo l’immagine consueta non sono, perché sono capaci di attraversare una landa che appare solidissima, di una densità materiale inimmaginabile. Dall’altro lato spettri che si caratterizzano in prima battuta per l’incapacità a stare in questa landa, a sentire la fatica tantalica dell’attraversamento di una radura o del sollevamento di una mera fogliolina. Perché tutto è per loro – in una maniera inimmaginabile – troppo materiale. E si viene a scoprire che gli spettri sono coloro che non hanno ancora compiuto il cammino di purificazione o che non arriveranno mai a compierlo, perché si rifiuteranno di farlo; nonostante le esortazioni degli spiriti raggianti e consistenti che gli si fanno incontro al termine del viaggio e a cui erano legati sulla terra da legami di amicizia, affetti o attività lavorativa.
Con scene rapide e immaginose Lewis ci pone al centro di quale sia il destino dell’uomo oltre la morte, di cosa significhi stare in Paradiso o nell’Inferno, di cosa voglia dire la vita beata. O almeno così sembra ad una prima lettura, lungo il libro. In questi che all’apparenza paiono appartenere ai novissimi, si parla di scelta («tu hai sentito abbastanza per vedere che esiste una scelta», dice MacDonald) e di qualcosa che non si possiede per natura, ma che bisogna volere («Ogni cosa può essere tua. Dio stesso può essere tuo. Ma non in questo modo. Niente può essere tuo per natura», dice uno spirito ad uno spettro). In questo che sembra un luogo oltremondano, si presentano spiriti che sono mandati agli altri per aiutarli alla liberazione: «Io sono qui per invitarla a pentirsi e a credere». Là si professa quello che si potrebbe definire, con una certa forma di paradosso, un ateismo cristologico: «Qui non sappiamo niente di religione: pensiamo soltanto a Cristo»; quel Cristo di cui si ricorda la discesa agli inferi, per predicare a tutti la salvezza («non vi è spirito imprigionato al quale Egli non abbia predicato»). Eppure la frase che chiude la sua Prefazione ci mette in guardia: «L’ultima cosa che io desidero è suscitare una materialistica curiosità sui particolari dell’ultramondo».
Perché alla fine, con una scena risolutiva, che svela la seconda parte del titolo dell’opera, si apprende che tutto è stato solo un sogno; un vaneggiare di qualcuno che si sveglia in una stanza fredda, con un tavolo sporco di inchiostro e ricolmo di libri. Ma subito prima del vero risveglio – come una sorta di dissolvenza tra il sogno e la realtà – un dialogo concitato tra il narratore e la sua guida rivela che i dialoghi tra i personaggi parlavano di scelte che anticipano «la scelta che va fatta alla fine di tutte le cose».
Ed è in questo che consiste la più grande originalità escatologica di Lewis, nascosta sotto le vesti apparentemente dimesse di una fantasticheria letteraria: pensare la vita che si colloca nel tempo e nello spazio come vita che può essere già al di fuori del tempo e dello spazio. Così si legge: «la terra, qualora venga presa al posto del Cielo, rivelerebbe d’essere una regione dell’Inferno, mentre se viene accettata in conformità al Cielo, costituisce fin dal principio una parte del Cielo stesso». Si badi: non si afferma che dalle scelte di carità ricercata o rifiutata, di affidamento alla volontà di Dio o di volontario allontanamento da essa dipende la nostra vita eterna. Si afferma qualcosa di più sottile e decisivo, quasi non si avesse una vera soluzione di continuità tra la vita terrena e quella eterna. Per coloro che vivono il (non in!) Paradiso, voltandosi indietro sembrerà che non abbiano vissuto altro che il Paradiso. Perché –come dice il Nuovo Testamento – se Dio è Amore, ogni vita di carità condotta in questa terra è già ora parte del Paradiso.