di Francesco Romano • Il Sommo Pontefice Francesco il 21 giugno 2019 ha approvato la “Nota” e ne ha autorizzato la pubblicazione.
La premessa della “Nota” parte dalla constatazione che una “bramosia” sempre più diffusa d’informazione va sacrificando l’amore alla verità, l’impegno alla sua ricerca e il senso di responsabilità davanti a Dio e agli uomini. La facilitazione nell’uso fuori controllo dei mezzi offerti dal progresso della tecnica pone problemi di etica, in primo luogo il sacrificio che subisce la verità quando la realtà soggiace al condizionamento della sua percezione e alla manipolazione della sua comprensione.
La “Nota” della Penitenzieria Apostolica ha per scopo di favorire una migliore comprensione di quei concetti che possono entrare nella comunicazione ecclesiale e sociale, quali il sigillo sacramentale, la riservatezza connaturata al foro interno extra-sacramentale e il segreto professionale, sempre più incompresi e talvolta avversati dall’opinione pubblica e dagli ordinamenti giuridici civili che tendono a ignorare che la Chiesa non riceve la sua legittimazione dai singoli Stati, ma da Dio stesso. “Forzare l’inviolabilità del sigillo sacramentale costituirebbe una inaccettabile offesa verso la libertas ecclesiae”, verso la libertà religiosa che fonda ogni altra libertà, inclusa la libertà di coscienza di ogni cittadino, sia penitente che confessore.
La prima preoccupazione è per una certa mentalità moderna che si va affermando, sempre più contraria alla sacralità del sigillo sacramentale. In passato per tutti, anche tra le persone prive di istruzione, valeva l’espressione “te lo dico come se fosse in confessione!” per invocare la massima tutela e inviolabilità del segreto confidato. A questo proposito, oltre a presentare le indicazioni offerte dalla “Nota” della Penitenzieria Apostolica, prendiamo al volo l’occasione per integrarle con alcuni importanti riferimenti sul tema trattato presenti nel Codice di Diritto Canonico.
L’inviolabilità del sigillo sacramentale è dettata dalla legge divina che si radica nel sacramento della Confessione e lo tutela, “indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente” che deve essere certo che qualunque momento del colloquio sacramentale resterà nel segreto della confessione. Nessuna potestà umana potrebbe dispensare da questa legge. Il sacerdote agisce in persona Christi capitis e quando pronuncia la formula “io ti assolvo” è Cristo stesso che gli permette di unirsi al suo “io”, perché nessuno uomo come tale potrebbe essere in grado di assolvere dai peccati.
La tutela da parte del sacerdote del sigillo sacramentale è incondizionata, al costo della sua stessa vita, non solo per motivi di lealtà verso il penitente, ma anche come atto di “martirio”, cioè come testimonianza all’unicità e universalità salvifica di Cristo. Il termine “sigillo” sacramentale vuole rappresentare l’inviolabilità del segreto come se fosse racchiuso in una busta sigillata da Dio stesso e recante l’iscrizione nemini, numquam, nihil, cioè “a nessuno, mai, nulla”, per cui nessuna persona o autorità umana per nessuna ragione avrebbe la potestà di rompere quel sigillo e aprire la busta.
La “Nota” nel ricordare che la materia del sigillo sacramentale è esposta e regolata dai cann. 983-984 e 1388 §1 del CIC, dal can. 1456 del CCEO e dal n. 1476 del “Catechismo della Chiesa Cattolica”, anziché dire la Chiesa “stabilisce” in forza della propria autorità, preferisce usare il verbo “dichiarare” per sottolineare che la Chiesa non fa altro che riconoscere quanto è intrinsecamente legato alla santità del sacramento della confessione.
Vengono ricordati due divieti dati in modo assoluto: “Al confessore non è consentito, mai e per nessuna ragione di tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa” (can. 983 §1), come anche, di “fare uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del penitente, anche escluso qualunque pericolo di rivelazione” (can. 984 §1). Il contenuto del sigillo sacramentale riguarda tutti i peccati del penitente o di altre persone, sia mortali che veniali, occulti e pubblici, conosciuti in confessione. È un principio assoluto che riguarda il sacramento della confessione, anche se l’assoluzione venisse differita, negata, oppure data invalidamente. A motivo di questa assoluta non disponibilità per il confessore di utilizzare in foro esterno le notizie acquisite in confessione, soprattutto qualora fosse costituito in autorità (cf. can. 984 §2), è fatto divieto “ad liceitatem” di ascoltare le confessioni sacramentali al maestro dei novizi, al suo assistente, al rettore del seminario o di un altro istituto di educazione (cf. can. 985).
L’inviolabilità del sigillo sacramentale risiede nella stessa natura ontologica del sacerdote che viene a conoscenza dei peccati “non ut homo, sed ut Deus”, non come uomo, ma come Dio. Il sacerdote agisce “mediante il ministero della Chiesa” dando voce al Signore nel pronunciare le sue parole: “io ti assolvo dai tuoi peccati”. Per cui, fuori dal sacramento della confessione è come se non sapesse o ricordasse ciò che ha ascoltato, al punto che potrebbe lecitamente arrivare a giurare il falso di non sapere quanto ha conosciuto in confessione pur tutelare il sigillo.
Il sigillo sacramentale vincola anche interiormente il confessore che è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo, non essendogli lecito ricordare volontariamente la confessione.
La profondità e l’estensione del sigillo sacramentale è resa ancor più evidente dal divieto imposto al confessore di fare parola, fuori dal sacramento, del contenuto della confessione anche con lo stesso penitente, “salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente”. D’altra parte, l’inviolabilità del sigillo sacramentale tocca lo stesso penitente per quanto riguarda l’incapacità “di sollevare il confessore dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio”.
Oltre a queste disposizioni assolutamente restrittive vogliamo ricordare anche la “incapacità” dei sacerdoti a essere testimoni, “per quanto sia venuto loro a conoscenza dalla confessione sacramentale, anche nel caso [per assurdo] che il penitente ne chieda la rivelazione; anzi, tutto ciò che da chiunque e in qualsiasi modo sia stato udito in occasione della confessione, non può essere recepito neppure come indizio di verità” (can. 1550 §2, 1).
Oltre al sigillo sacramentale che riguarda il confessore, esiste anche il “segreto” al quale sono tenuti sia l’eventuale interprete che tutti coloro che in qualunque modo siano venuti a conoscenza di peccati rivelati nella confessione (cf. can. 983 §2). La violazione del sigillo da parte del confessore comporta la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica, mentre la violazione del segreto legato alla confessione da parte dell’interprete o di altri soggetti comporta una pena obbligatoria e indeterminata che può arrivare fino alla scomunica (cf. can. 1388 §2).
Ci ricorda la “Nota” che l’esigenza intrinseca al sigillo sacramentale e la sua difesa, mai possono costituire una qualche forma di connivenza col male. La struttura stessa del sacramento della Riconciliazione, quale condizione per la sua validità, comporta il sincero pentimento, il fermo proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso. In presenza di peccati che sono anche reati, il confessare deve verificare le disposizioni del penitente per impartire l’assoluzione, ma non può porre come condizione che prima vada a costituirsi alla giustizia civile perché urterebbe con il principio di diritto naturale Nemo tenetur se detegere. Nei riguardi di un penitente che si dichiari vittima di un reato subito, il confessore dovrà istruirlo sui suoi diritti e sugli strumenti per ricorrere al foro civile ed ecclesiastico, ma senza condizionamenti lasciando la decisione alla sua coscienza.
La seconda parte della “Nota” illustra il foro interno extra-sacramentale, il cui ambito è esterno al sacramento della confessione, ma sempre occulto. Anche in esso la Chiesa esercita la sua potestà e missione salvifica non rimettendo peccati, ma concedendo grazie o liberando da censure, impedimenti, irregolarità ecc.
La direzione spirituale fa parte del foro interno extra-sacramentale in cui il fedele affida al sacerdote in forza del sacramento dell’Ordine, o a un laico in forza del sacerdozio battesimale, il proprio cammino di conversione e santificazione. Anche in questi casi deve essere tutelato il segreto di chi apre la propria coscienza al direttore spirituale che ascolta in forza del suo speciale rapporto con Cristo “che gli deriva dalla santità di vita e, se chierico, dallo stesso Ordine sacro ricevuto”. In questo ambito il diritto alla riservatezza e alla propria intimità, come è codificato dal can. 220, è prima di tutto di diritto naturale.
Il foro interno extra-sacramentale, non è vincolato e tutelato alla stregua del sigillo sacramentale, ma gli è comunque riconosciuta una speciale riservatezza per il diritto naturale dovuto al segreto “commesso” e “promesso”, anche in modo non esplicito. Ma vi è di più, nella direzione spirituale il fedele apre il segreto della propria coscienza per essere illuminato e orientato al compimento della volontà di Dio. Qualche esempio a dimostrazione di ciò è il divieto di chiedere al direttore spirituale il parere per l’ammissione agli Ordini sacri, o per la dimissione dal seminario dei candidati al sacerdozio (cf. can. 240 §2) e, per estensione, anche l’ammissione dei religiosi e dei novizi alla professione religiosa o la loro dimissione ai quali viene riconosciuta dai Superiori “la debita libertà per quanto riguarda il sacramento della penitenza e la direzione della coscienza” (can. 630 §1). L’Istruzione “Sanctorum Mater”, sullo svolgimento delle inchieste diocesane nelle cause dei santi, vieta di ammettere a testimoniare sia i confessori che i direttori spirituali del Servo di Dio.
La terza parte della “Nota” è dedicata ai “Segreti e altri limiti propri della comunicazione”.
Oltre al segreto legato al foro interno sacramentale ed extra-sacramentale, esiste anche il segreto professionale a cui sono tenute alcune categorie di persone che svolgono un particolare ufficio nella società civile o nella Chiesa. Il segreto professionale non è assoluto come nel caso del sigillo sacramentale tanto che il “Catechismo della Chiesa Cattolica” (n. 2491) ammette la possibilità della rivelazione quando la custodia dovesse arrecare danno a chi si è confidato, a chi ne viene messo a parte o a terzi. Il Codice di Diritto Canonico esenta dall’obbligo di rispondere in qualità di testimone: “i chierici, per quanto sia stato loro confidato in ragione del sacro ministero; i magistrati civili, i medici, le ostetriche, gli avvocati, i notai e gli altri tenuti al segreto di ufficio anche in ragione del consiglio dato, per tutto ciò che cade sotto questo segreto” (can. 1548 §2, 1). Mentre il segreto derivante dal sigillo sacramentale non ammette neppure la liberatoria da parte del penitente (cf. can. 1550 §2, 1), chi è tenuto soltanto al segreto d’ufficio può avvalersi della liberatoria data dal proprio cliente o paziente per poter rivelare quanto ha conosciuto nell’esercizio del suo ufficio.
Un caso particolare è il “segreto pontificio” che vincola in forza del giuramento connesso all’esercizio di determinati uffici al servizio della Sede Apostolica. La ragione ultima è il bene pubblico della Chiesa e la salus animarum.
Infine, la “Nota” richiama la sapienza della Chiesa riguardo alla linea da seguire negli altri ambiti della comunicazione, sia pubblici che privati, insegnata dal Signore: “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Lc 6, 31), ovvero di conformare la propria vita al precetto dell’amore fraterno quando chi pone una domanda non ha il diritto di conoscere la verità, avendo davanti agli occhi la regola preminente del bene e della sicurezza altrui, il rispetto della vita privata e il bene comune.
La correzione fraterna rappresenta un particolare dovere di comunicazione della verità nei vari gradi insegnati dal Signore: “Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità” (Mt 18, 15-17).
Una esortazione efficace con cui la “Nota” conclude è di re-impostare la forza della parola e il suo potere costruttivo, ma anche il suo potenziale distruttivo in questo tempo con cui con tanta rapidità ogni informazione viene “bruciata” e con essa a volte anche la vita delle persone. In modo particolare il richiamo è all’attenta vigilanza nel custodire il sigillo sacramentale e la riservatezza connessa all’esercizio del ministero ecclesiale “avendo come unico orizzonte la verità e il bene integrale delle persone”.