di Francesco Vermigli • «Ma tu, “o Signore, fino a quando? Fino a quando, o Signore, ti dimenticherai di noi, fino a quando ci nasconderai il tuo volto?” Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai “il tuo volto”? Quando ti restituirai a noi? Guardaci, o Signore, esaudiscici, illuminaci, mostraci te stesso» (Proslogion, cap. I): così si legge all’inizio dell’opera più celebre del grande abate del Bec, poi arcivescovo di Canterbury, Anselmo di Aosta (1033/1034-1109). Come noto, il Proslogion ha lo scopo ci cercare un argomento unico e autosufficiente («incominciai a chiedermi se per caso non si potesse trovare un unico argomento, che per dimostrare la sua validità non avesse bisogno d’altro argomento che di se stesso»: Proemio) in grado di dimostrare l’esistenza di Dio; essendo Anselmo rimasto insoddisfatto dai molti argomenti da lui portati nel precedente Monologion. E come noto questa prova unica e autosufficiente si basa sul concetto di Dio come id quo majus cogitari non potest (cap. III), cioè come ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore.
Ma all’inizio di questo articolo in cui vogliamo presentare la figura e il pensiero di Anselmo, la nostra attenzione è attratta da quella preghiera che svela qualcosa di decisivo. Si tratta di qualche riga infarcita di riferimenti ai salmi, in modo particolare ai salmi che si lamentano della distanza di Dio, del suo silenzio; i salmi che invocano la sua presenza, la sua manifestazione, la rivelazione del suo volto (cfr. Sal 80,4). Sono, queste, le preghiere del lamento per l’abbandono e le preghiere che chiedono il rinnovamento dell’alleanza con il popolo: in modo specifico sono le preghiere che invocano lo svelamento del vero volto di Dio nella vita di Israele.
È decisivo proprio questo all’inizio dell’opera che mostra lo sforzo di Anselmo di cercare l’unico argomento su Dio: che questo medesimo unico argomento non può essere donato che da Dio stesso. In altri termini, la preghiera accorata che di fatto occupa l’intero primo capitolo del Proslogion, mostra che Dio è ad un tempo oggetto della conoscenza e soggetto della stessa: Egli è Colui che viene conosciuto, ma ancora prima è Colui che rende possibile la sua conoscenza. Solo se Dio si rivela, l’uomo può giungere a quell’unico argomento tanto desiderato. La conoscenza su Dio, la risposta alla quaestio de Deo, an sit acquista allora la forma di un’illuminazione soprannaturale, la forma della rivelazione e della grazia.
Se questo accade – se accade che Dio si riveli all’uomo, che nella preghiera chiede di conoscere il suo vero volto – è perché l’uomo è capace di Dio, è capace di ricevere la sua manifestazione. Se Dio illumina la mente dell’uomo e si fa conoscere è perché il Logos eterno si comunica ai logoi umani, che sono il costitutivo umano su cui può agire la rivelazione di Dio; il costitutivo antropologico, cioè, che fa sì che la sua manifestazione non possa accadere invano.
La tradizione cristiana ha usato la categoria dell’imago Dei per rappresentare il vincolo di comunicazione tra Dio e l’uomo: l’uomo può entrare in relazione con Dio, perché possiede in se stesso l’immagine creaturale che rimanda all’essenza di Dio. E non casualmente questa categoria compare proprio nel primo capitolo del Proslogion, da cui abbiamo tratto la preghiera che sopra abbiamo presentato: «Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine affinché, memore di te, ti pensi e ti ami. Ma questa immagine è così cancellata dallo sfregamento dei vizi ed è così offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò per cui è stata fatta, se tu non la rinnovi e la riformi» (cap. I). Questo brano di poco successivo a quello che apre l’articolo, ci aiuta a fare ulteriori considerazioni.
Nella vita, l’uomo ha a che fare in se stesso con un’immagine di Dio che è offuscata dal peccato, appesantita dagli inganni dei vizi: in breve ha a che fare con un’immagine che pare incapace di accogliere la rivelazione di Dio. Non solo dobbiamo affermare che la verità su Dio può essere conosciuta dal logos umano, solo se Dio la comunica all’uomo che prega; ma bisogna anche affermare che prima ancora Dio deve rinnovare l’immagine di Dio nell’uomo, per poterlo rendere capace di accogliere il suo disvelamento.
L’uomo è posto nella propria vita in una dialettica fondamentale, che lo colloca come sospeso tra la capacità costitutiva e l’incapacità funzionale di conoscere l’esistenza di Dio: ha lo strumento, il modo per conoscere Dio, ma vive nella condizione di non poterlo usare. L’Anselmo monaco, abate e pastore di una comunità, l’Anselmo che vive l’esperienza della lacerazione e del peccato, della fragilità e del cammino nella regio dissimilitudinis – la “regione della dissomiglianza”, secondo la formula assai diffusa alla sua epoca – sa che l’uomo è posto tra capacità e incapacità. Per questo la preghiera del credente che chiede la verità su Dio, deve chiedere innanzitutto la purificazione e il rinnovamento della propria immagine, a cui Dio svela se stesso e la sua esistenza.