di Alessandro Clemenzia • Non deve sorprendere se, a mezzo secolo di distanza, il dibattito sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II continui a rimanere acceso, spesso accompagnato da toni aspri e polemici. Al di là dei testi cui far riferimento, l’attenzione viene rivolta non tanto sulla novità degli argomenti trattati, quanto sulla valutazione dottrinale dei documenti conciliari, spesso avversati in nome dell’aggettivo “pastorale”, che ha qualificato tale evento. Prima ancora di presentare brevemente l’argomento, è bene introdurre alcune “parole-chiave” che sempre vengono rievocate in questo contesto: “recezione”, “ermeneutica” e “Tradizione”. Mentre le prime due sono spesso usate come sinonimi, alla terza viene il più delle volte applicato un significato che rischia di svuotare il suo senso più vero.
La recezione ha per soggetto l’intero popolo di Dio, e sta a indicare il processo di assimilazione di ciò che è stato affermato dal Concilio. Non ha a che fare unicamente con la lettura e il commento dei testi conciliari, ma è il riconoscersi e comprendersi all’interno del “noi” ecclesiale, in una continuazione esperienziale con quanto accaduto. Dal post-Concilio ad oggi si è assistito a un susseguirsi di diverse fasi di recezione.
L’ermeneutica, invece, è l’interpretazione dei testi, in cui viene spesso privilegiata una prospettiva rispetto alle altre. Come attestano un gran numero di articoli e manuali usciti a tale proposito, non esiste un’unica ermeneutica, ma numerose, e raggruppate principalmente in due gruppi: quella così chiamata della discontinuità e della rottura, e quella della riforma nella continuità. Il più delle volte, l’interpretazione offerta ai testi ricade quasi automaticamente su quale valore conferire all’evento stesso.
Questi differenti approcci devono comunque fare i conti con l’altro termine preso in questione: la Tradizione. Nella Costituzione dogmatica Dei Verbum viene affermato in modo decisivo:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo (12): cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8).
Il testo è chiarissimo: la Tradizione è un processo vitale, non una statica conservazione di forme; e se questo è vero, viene automaticamente a decadere quel rapporto d’opposizione fra tradizione e progresso, frutto di una mentalità che, purtroppo, ancora oggi si affaccia nel nostro orizzonte teologico. La “riforma” fa parte del processo stesso di “continuità” della Tradizione ecclesiale lungo i secoli.
Un’ultima parola su cui riflettere è quella della “pastoralità” del Vaticano II, termine ancora oggi inteso in antitesi a “dogmatico” per affermare la provvisorietà della dottrina proposta, adombrando così l’evento e riducendolo a un Concilio di “serie B” rispetto agli altri. La questione è dovuta al fatto che i testi del Concilio sono scritti in maniera differente rispetto a quelli precedenti: non ci sono né canoni né formule particolari per esprimere le definizioni di fede.
Già il cardinale Umberto Betti, riferendosi in particolare alla Lumen Gentium, ha affermato che «quel che conta in un documento conciliare è l’affermazione della verità; la quale è valida in se stessa, più per quello che dice che per quello che non dice o proibisce di dire. Una dottrina, infatti, non è infallibile perché il magistero la definisce e la propone in quanto tale; al contrario, è definita dal magistero perché essa è infallibile, e questa sua qualità sussiste indipendentemente dalla definizione». Pastoralità allora non significa carenza dogmatica, ma affermazione della verità a partire dall’esperienza dell’uomo di oggi, con valutazioni offerte non attraverso concettualizzazioni precedentemente poste, ma grazie ad uno sguardo sulla realtà attuale. Pastoralità significa ricentrare il discorso sull’experientia fidei come luogo del dirsi e del darsi di Dio all’umanità, per cui l’uomo, per comprendere il senso della Chiesa, deve saper scrutare se stesso nel tempo presente.