di Dario Chiapetti • Proprio recentemente con un ex collega ricordavo il Seagram Building, il grattacielo newyorkese, tra i più eloquenti manifesti del Movimento Moderno, progettato da Ludwig Mies van der Rohe (1886-1969). Quando penso a quest’opera penso sempre a quella soluzione di rompere l’allineamento sul fronte strada con le facciate degli altri edifici, a quell’arretramento che genera spazio (una sorta di piazza, luogo di scambio), spazio che è anche distanza e distanza che è condizione di osservazione di ciò che si viene a configurare così come alterità. Penso a come ciò costituisca l’invito ad accorgersi delle cose come presenza, con le sue fattezze, in questo caso l’armonia, armonia ricercata, facendo propria la lezione degli antichi greci, negli studiati rapporti geometrici e spaziali e che si esprime nelle forme essenziali e moderne del vetro e bronzo delle finiture esterne. Penso a come la particolare concezione del rapporto interno-esterno che esso esprime informi non solo l’esperienza spaziale di chi sta all’esterno ma anche la logica abitativa di chi sta all’interno. Ebbene, pensando a tutto ciò del Seagram penso ai termini con cui papa Francesco parla del cammino che la Chiesa ha da compiere oggi.
Armando Matteo (1970), docente di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana, nel suo Il postmoderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci. Prima lezione di teologia urbana (Edizioni Messaggero, Padova 2018) affronta proprio la questione della vita urbana e la Chiesa. Esso è il primo di una collana, da lui diretta, intitolata «Percorsi di teologia urbana» e che si ispira programmaticamente all’intuizione e all’invito del papa di «arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (Evangelii Gaudium, 74). L’attenzione alla realtà della città è motivata dall’Autore per il fatto che è in essa che la stragrande maggioranza degli uomini, così come dei cristiani, vive, e pertanto rappresenta il luogo primo d’annuncio evangelico. Del resto è proprio in una città e non in un centro rurale in cui si è massimamente rivelata ed effusa la vita di Dio – Gerusalemme – ed è una città – la Gerusalemme celeste – lo status ontologico a cui Dio vuole chiamare tutti gli uomini.
L’Autore conduce le sue riflessioni muovendosi su più piani, pastorale, filosofico, sociologico, ecc., e fotografa lo stato attuale globale, sia della Chiesa che della città, con immagini piuttosto grigie, certo provocatorie, senza la preoccupazione di soffermarsi sulle eccezioni, e tuttavia cerca di mostrare come tutto ciò costituisca un invito imperdibile a comprendere e trasmettere la vita del Vangelo in modo purificato e rinnovato.
Esordisce Matteo: la fede è attualmente perlopiù roba per bambini e anziani. È roba per bambini a cui sovente i genitori (quelli che ancora riconoscono alla Chiesa una qualche autorità) fanno frequentare il catechismo delegando al parroco e ai catechisti quel poco di compito educativo (creduto perlopiù esclusivamente sul piano morale) a cui non vogliono o non riescono a far fronte in buona parte loro. Poi, negli anni di catechismo, sembra che i bambini vengano formati per abbandonare la Chiesa e così avviene. Gli anziani invece, facendosi in essi vivo il senso dell’avvicinarsi del santo passaggio, si mantengono stretti pratiche e devozioni in un quadro concettuale di una fede – che è quello che hanno ricevuto – fondamentalmente più incentrato sulla questione della buona morte che della vita buona. Ebbene, in tale quadro i grandi assenti sono gli adulti. In primo luogo, essi sono assenti dalle attenzioni della Chiesa: si stenta a trovare una predicazione rivolta agli adulti che sia ben curata, aggiornata biblicamente, dogmaticamente, patristicamente, liturgicamente, magisterialmente, ecc. e che esponga con chiarezza e pertinenza alle questioni della vita il messaggio evangelico. In secondo luogo, gli adulti sono perlopiù assenti in assoluto. È uno dei mali dell’uomo di oggi il giovanilismo: restare giovani e liberi di fare ciò che si vuole è l’obbiettivo della vita e il sacrificio, l’educazione, la crescita, l’accoglienza di sé nelle varie stagioni della vita e la saggezza come qualcosa che si acquisisce col tempo non hanno più posto nell’esistenza come valori.
La città, invece, nasce come luogo di interazione ma si trasforma ben presto in luogo di ammassamento di persone sole e la realtà dei social altro non è che paradigma della città come ammassamento di persone sole.
Ora, questi stati di fatto non possono essere più lasciati stare o trattati con qualche maquillage come i tentativi di rinnovamento pastorale, secondo l’Autore, degli ultimi decenni confermano. Difronte a tutto ciò occorre pensare, tornare a pensare, pensare il postmoderno, pensare sé, pensare la fede: osservare con l’opportuna distanza il grattacielo. Matteo esamina la religiosità cristiana e il postmoderno e argomenta la sua interpretazione di come quello che siamo sia il frutto maturo della negazione di Platone, Agostino e della concezione romana della res publica. La questione è urgente da affrontare, oltre che complessa e dibattuta (per un punto di vista orientale penso, ad esempio, al pensiero di Christos Yannaras così come è espresso in Χάϊντεγγερ καὶ Ἀρεοπαγὶτης, ὴ Περὶ ἀπουσίας καὶ ἀγνωςίας τοῦ Θεοῦ, Domos, Atene 19882).
Ad ogni modo – secondo l’Autore – è proprio l’adultità della fede e degli uomini ciò di cui c’è bisogno e provocarla è ciò che costituisce l’unico fine della pastorale. Una religiosità di precetti e ricette non reggerà ancora per molto gli urti della postmodernità. Il cristiano di oggi deve comprendere, ed essere aiutato a comprendere, se la fede come opzione di vita è una questione da adulti che realizza la vita o una favola per bambini o una morfina per anziani. Il cristiano di oggi deve passare, ed essere aiutato a passare, da una fede immatura (cercare da Dio e dal mondo “qualcosa”) alla fede adulta (avere la vita di Dio in sé e rifletterla). Il cristiano di oggi deve scoprire, ed essere aiutato a scoprire, se la fede è sinonimo di libertà, quella dei figli di Dio, o di schiavitù. Solo puntando su questa libertà e la creatività che ne segue potrà sorgere un soggetto capace – e voglioso! – di costruire. Costruire: creare cantieri nella città, luoghi in cui non si spolvera o si contrafforta – l’Autore pensa a tante strutture e sovrastrutture che non servono più a un bel niente – ma si demolisce e si conserva, si irrobustisce e si alleggerisce, si restringe e si amplia.
Ma come procedere radicati nel disegno di Dio in tale opera di ristrutturazione dell’uomo urbano? L’adultità trova nella riscoperta di ciò in cui consiste il centro dell’azione salvifica di Dio il suo elemento informante: l’attuazione della creazione come “corpo”, della realtà come “città”, della persona – come scrive Matteo – come un «mai senza l’altro». È la costituzione di un sé come un mai senza l’altro, e non la salvezza individuale dell’anima, la figura soteriologica rivelata da Cristo e che il cristiano deve seriamente e personalmente verificare nella sua vita, luminosamente mostrare e scientemente illustrare. Solo dalla ripresa di ciò che è rintracciato come originale, principiale e quindi essenziale può prendere avvio l’espressione adulta della fede, quella creativa, generativa di sé come un unico spazio abitabile tra interno e esterno del grattacielo. Solo in questi termini la fede è.
È senz’altro degno di nota il tentativo di Armando Matteo di rimettere al centro della questione del pensiero e dell’azione il pensare. È un accurato pensare che scardina ciò che si crede di sapere, allarga gli orizzonti, evita all’uomo la sua relegazione all’unico compito di parare i colpi dei calcinacci che cadono. E soprattutto è il pensare, il pensare le cose che si hanno davanti, che costituisce il primo esercizio del vero ruolo dell’uomo, sacerdote del creato, architetto della città.