di Dario Chiapetti • «Noi siamo vittime – diceva papa Francesco nel 2013 ai seminaristi, ai novizi e alle novizie – di questa cultura del provvisorio. Io vorrei che voi pensaste a questo: come posso essere libero, come posso essere libera da questa cultura del provvisorio? Noi dobbiamo imparare a chiudere la porta della nostra cella interiore, da dentro». Con ciò Bergoglio indica la solitudine della cella quale atteggiamento con cui vincere rapporti provvisori con gli altri provvisori con cui si viene in contatto. Questa solitudine dunque combatte – non dichiara!- il decadimento del valore ontologico assoluto di ogni alterità e, al contempo, precisa che tale assolutezza solo in Dio può trovare affermazione. Inoltre, sempre dalle parole del papa, la dimensione solitaria dell’essere dell’uomo è detta essere propria non solo di alcune categorie di cristiani in base all’appartenenza a certi stati di vita, essa appartiene innanzitutto a Gesù e, a partire da Lui, a tutti i suoi discepoli. All’Udienza Generale dello scorso 5 dicembre diceva: «È un pericolo dei leader attaccarsi troppo alla gente e non prendere distanza», lo stesso Gesù non era interessato al «successo plebiscitario […] cercava anche luoghi raccolti, separati dal turbinio del mondo, luoghi che permettessero di scendere nel segreto della sua anima [in una] intimità con il Padre», un’intimità però onni-abbracciante: Gesù viveva la sua relazione esclusiva col Padre in modo tale per cui vi introduceva noi. Ogni uomo è inserito da Cristo alla relazione esclusiva-inclusiva col Padre, anzi, è proprio questa la cifra dell’essere cristiano.
Nella storia della Chiesa, l’aspetto dell’esistenza cristiana come distacco dal mondo per abbracciare il mondo è stato tradotto in precisa prassi di vita in modo particolare nella tradizione esicasta, diffusa dai monaci orientali fin dai padri del deserto del IV secolo. Solitudine e preghiera. La tradizione esicasta (Qiqajon, 2018) – traduzione italiana e riveduta di un testo del 1966 di Irénée Hausherr (1871-1978), gesuita francese e docente al Pontificio Istituto Orientale – affronta proprio i tratti principali di tale esperienza ascetica e di cui, di seguito, presento qualche aspetto.
L’Autore chiarisce innanzitutto il senso del termine da cui deriva “esicasmo”, ossia, esichia, quiete; egli ne presenta le sfumature e i sinonimi che si trovano sia nella Scrittura che nella tradizione monastica che nei sistemi filosofici antichi; mostra come tale vita calma consista proprio nel dono che il Signore viene a portare nella sua azione salvifica. Hausherr mostra come non si tratti, nell’esicasmo, di un fenomeno riconducibile a quelli espressi da concetti come si trovano nella filosofia greca quali l’apatia o l’atarassia, ossia, l’indifferenza verso un mondo che, inteso come degradazione ontologica dalla sfera divina, è puro determinismo necessitato dagli dèi, pure essi necessitati da superiori e impersonali entità. Ci si trova invece in presenza di quel tentativo – sorto certo anche come espressione cristiana sollecitata da precisi contesti storici, non oggetto di attenzione delle riflessioni condotte dall’Autore in questo testo – della ricerca e dell’accoglienza della vita stessa di Dio che consiste nell’unione col tutto e che può essere realizzata nel credente solo rigettando il modo passionale, inficiato dal peccato e quindi soggetto all’egoismo, di relazione con Dio, con sé, gli altri e la creazione intera.
Ecco che l’Autore passa a illustrare come la ricerca della quiete interiore e della solitudine fisica (il deserto o la cella), pur senza coincidere pienamente (si può essere isolati fisicamente ma essere pieni di attaccamenti passionali, persino quelli alla solitudine!) si implicano a vicenda. Il rigetto del mondo significa così il rigetto delle passioni e il deserto diviene il luogo di accoglienza del dono divino della quiete in quanto luogo in cui ci si concentra sul combattimento spirituale, e sulla sua necessità per il conseguimento della pace: combattimento teso ad apprendere la modalità relazionale – non una modalità a-relazionale – propria di Dio. Si tratta perciò di una purificazione dell’amore, di una crescita di quest’ultimo mediante il distacco dalle passioni che troppo sottilmente si celano anche nei gesti di più grande carità da parte degli uomini più impegnati per il prossimo. È l’aspetto psicologico, più che teologico – precisa l’Autore – che rende conto della scelta del deserto o della cella: queste sono state ritenute le condizioni più favorevoli da quei monaci per centrarsi su Dio e sul combattimento contro le passioni che svuotano l’essere come amore dall’interno. Ora, dato che l’unione con Dio non avviene individualisticamente (quello dell’individualizzazione della fede è piuttosto un male dei nostri giorni), il distacco dagli altri uomini non era totale. Sempre veniva lasciato lo spazio per l’esercizio della carità – come Hausherr richiama, ad esempio, con alcuni bei passaggi di Abba Isaia – e della cui attuazione si cercava la massima verità. La carità verso un fratello che si aveva dinanzi veniva purificata, grazie al silenzio, fino a caratterizzarsi, talvolta, come silenzio stesso, il dono più prezioso che unisce in Dio. La parola come silenzio e il silenzio come parola; Dio come parola, movimento di comunicazione ma anche come quiete silenziosa e pace: è così messa in luce l’antinomia di Dio, la coincidentia oppositorum che costituisce il suo essere e che mai deve andare persa nella comprensione che il fedele ha del volto divino, pena ridurre questo a realtà unilaterale e, in definitiva, totalitaria.
È certo che, come ogni espressione storica della fede, la tradizione esicasta, sottolinea in modo particolare un aspetto, tra i tanti, dell’essere cristiano – la preghiera e la solitudine – e compone, a partire da questo nucleo, il resto. Ed esso non è così inattuale, nonostante l’invito alla preghiera possa essere considerato irrisorio per sopravvivere in un mondo così intriso di violenza e quello alla solitudine fare il gioco al nostro contesto in cui si è sempre più “connessi” per essere sempre più comodamente soli. Tuttavia, il monaco esicasta – come dà prova Hausherr – ha l’ardire di incontrare il Dio della pace – e non del successo mondano e delle guerre – e sa che questo incontro avviene non come rinuncia alla vita ma come esposizione di sé alla vita, alla vita vera che nasce laddove la realtà ‘morde’, il deserto del proprio cuore; esposizione piena come perdita e dono di tutto ciò che si ha e si è; esposizione autentica alla vita, quell’esposizione che solo Dio vede, così mortifera e vivificante che ristabilisce l’originaria configurazione dell’essere relazionato dell’uomo, la sua immagine divina: colui che si “preoccupa” – questa volta sì – delle cose di Dio, che Dio sia tutto in tutte le cose.