di Francesco Vermigli • Il 17 ottobre la Chiesa celebra la memoria di sant’Ignazio vescovo di Antiochia e martire a Roma: nella sede episcopale in Siria fu il secondo successore di san Pietro; a Roma morì divorato dalle belve in una data imprecisata, probabilmente tra il 107 e il 115. Condotto in vinculis attraverso il Mediterraneo, passò per Filadelfia, Smirne e Troade: durante il viaggio scrisse sette lettere alle chiese incontrate lungo il trasferimento ed ad altre ancora e una lettera a Policarpo di Smirne; lettere che costituiscono, assieme a quella ai Corinti di Clemente, alla lettera dello stesso Policarpo agli abitanti di Filippi e alla Didaché i primi monumenti letterari del cristianesimo antico.
I suoi scritti spiccano per il grande valore letterario e per il contenuto teologico denso: soprattutto, essi sono intrecciati saldamente alla sua biografia, come forse non accade in nessun altro padre della Chiesa, fino ad Agostino. Le lettere alle chiese sorelle disperse nelle terre ai margini del grande bacino del Mare Nostrum sono commoventi, il tono è colloquiale e accorato, gli argomenti sono personali. Tutto in questi scritti tende al compimento, che è l’unione nel martirio a Cristo crocifisso: un’acqua interiore e viva zampilla – l’acqua del battesimo che ha segnato per lui e segna per tutti i credenti l’ingresso tra i figli di Dio – e par che gli dica di andare al Padre (cfr. Lettera ai Romani, VII). Il martirio è annunciato da Ignazio, il martirio è da lui previsto, il martirio è da lui desiderato. La pena capitale della consegna alle fiere lo conduce a far propria un’immagine assai eloquente: egli è frumento di Dio, macinato dai denti delle belve, per diventare il pane di Cristo (cfr. Lettera ai Romani, IV).
Non esiste riga dei suoi scritti che non trasudi di riferimenti biografici, tanto che si potrebbe dire che in Ignazio vita e fede – l’insoluto binomio del vissuto ecclesiale e di quello del singolo credente di ogni tempo – sono intimamente uniti, reciprocamente connessi. Più di dieci anni fa una sua frase, un poco modificata, assurse agli onori delle cronache, quando fu usata in un Convegno della Chiesa che è in Italia, da un cardinale arcivescovo giunto alla morte poco tempo fa: «È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo». Una frase lapidaria, chiara, evidente, che ben si adatta alla vicenda biografica di un cristiano e vescovo che rese testimonianza a Cristo nell’effusione della propria stessa vita.
Quando parla del proprio martirio nella lettera inviata ai cristiani di Roma, Ignazio usa, come detto, l’immagine del frumento che verrà macinato dalle fiere per farlo diventare corpo di Cristo; un’immagine che restituisce bene il senso di quale sia il significato del martirio che lo attende. Ma in quell’immagine è racchiuso anche un simbolo ecclesiologico, che non possiamo lasciar passare. L’immagine della Chiesa come corpo di Cristo ha, come noto, un’ispirazione paolina; basti pensare a quello che si legge nella Prima Lettera ai Corinti: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1 Cor 10,17). E anche se nel punto citato si potrà vedere un riferimento ecclesiologico solo indiretto e sfumato, il principio che sostiene la figura della Chiesa come unico corpo è il principio che ha guidato la stessa vita di Ignazio; il principio reso anche plasticamente dall’invio di missive alle chiese sorelle, segno di unità e di comunione tra tutti i cristiani.
Si tratta di un’unità non astratta o meramente tematizzata, ma vissuta nell’offerta della propria vita di vescovo: una vita offerta per il proprio gregge innanzitutto, certamente, ma anche per l’edificazione dell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa, dispersa in ogni dove. L’unità saggiata col fuoco del sacrificio personale e del martirio è l’unità segnata dallo stigma della carità, riflesso dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. In altri termini, la testimonianza del sangue è segno di carità verso la di essa, perché non è altro che la carità il vincolo che tiene unita la Chiesa.
Vogliamo in conclusione volgere la nostra attenzione ad un passaggio in cui ci si imbatte in apertura della Lettera ai Romani, da cui anche sopra abbiamo preso alcuni brani. Nella salutatio Ignazio mette in campo tutti gli accorgimenti stilistici richiesti dall’epistolografia antica. Qui si legge che egli scrive alla Chiesa che «che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità». Queste parole hanno attratto gli studiosi, alla ricerca degli antecedenti del primato petrino nell’antichità. Per quello che qui a noi interessa più semplicemente, Ignazio parla di una “presidenza alla carità” della Chiesa di Roma, probabilmente perché proprio quella è la Chiesa degli apostoli, delle colonne che hanno reso testimonianza a Cristo con il loro martirio. Perché non potrà mai accadere che nella Chiesa la presidenza contraddica alla carità, criterio di unità.