di Alessandro Clemenzia • La grande sfida educativa odierna è quella di riuscire a far dialogare «l’antropologia cristiana con la psicologia, non per ottenere una “psicologia cristiana” che in un modo piuttosto bizzarro sarebbe destinata solo ai credenti, ma per recuperare la pienezza umana a cui la persona deve poter giungere quando corrisponde alla propria vocazione» (p. 12).
Queste parole introducono quello che Chiara D’Urbano, psicologa e psicoterapeuta che da tanti anni accompagna individualmente e comunitariamente chi è in formazione per una totale consacrazione a Dio, ha scritto nel suo libro Per sempre o finché dura. Processi psicologici del cammino sacerdotale e di vita in comune (Città Nuova, Roma 2018). Pur correndo il rischio di non tenere sufficientemente conto della molteplicità di argomenti trattati, ci si potrebbe inserire in questo testo attraverso tre parole-chiave: corrispondenza, comunità e autonomia.
Corrispondenza. Oltrepassando una passata tendenza religiosa, che arrivava a obliare quei doni personali conferiti da Dio stesso alla sua creatura in nome di una presunta volontà divina, D’Urbano presenta la felice corrispondenza tra il desiderio dell’uomo, che tende alla propria realizzazione, e il desiderio di Dio, che è eternamente orientato alla “pienificazione” della sua creatura: «l’uomo e Dio vogliono la stessa cosa, e quindi il famoso progetto di Dio altro non è che la massima realizzazione della persona, la sua piena umanità, ben oltre l’orizzonte che ci si era prefigurato» (p. 18). Queste due differenti aspirazioni, umana e divina, hanno un’unica mèta, e devono rappresentare il punto di partenza di ogni percorso vocazionale: ciò impedisce, a colui che deve essere formato, di fondare il proprio cammino su un inutile sforzo per divenire ciò che non si è, e al formatore, di confondere un’autentica chiamata alla consacrazione con l’esigenza di riempire gli spazi vuoti delle proprie strutture religiose. Il fatto che in questo cammino si possa andare «ben oltre l’orizzonte che ci si era prefigurato» significa che un discernimento vocazionale può avvenire all’interno di un percorso duraturo, attraverso cui ciascuno deve prendere coscienza di ciò che è, in vista del raggiungimento della propria pienezza.
Comunità. Questo cammino di “umanizzazione” trova nella vita comunitaria il luogo privilegiato della sua attuazione. Prima ancora di spiegare una tale affermazione, è necessario purificarsi da una comprensione idilliaca di vita comunitaria, che è più il frutto di un’ipotesi affettiva che la visione attenta e di fede della realtà. La vita comunitaria, infatti, è «un fattore ambiguo rispetto alla crescita individuale» (p. 31), in quanto la semplice co-abitazione non produce ipso facto un risultato positivo sul singolo: è necessaria una qualità relazionale, in assenza della quale ci si può imbattere in diverse derive: «rabbia, abuso di alcol, pornografia, iperapostolato» (p. 36). La vita comune non ha un effetto immediatamente terapeutico sui singoli, in quanto essa non è finalizzata a risanare le ferite, ma a far sì che ciascuno possa pienamente e liberamente donarsi agli altri. Tale dinamica richiede nella persona un equilibrio di base: è pericoloso, infatti, accogliere persone immature e instabili all’interno di strutture comunitarie con la speranza che in esse possano essere sanate ferite ancora aperte, soprattutto se i formatori non hanno competenze in questi ambiti, in quanto si rischia di negare il processo di maturazione dell’intera comunità. E neanche le intenzioni più spirituali possono cambiare la situazione; scrive D’Urbano: «Pensare che Dio chiami una persona a intraprendere un percorso senza che ella ne abbia le risorse, neppure potenziali, mi sembra un paradosso» (p. 50). Il riconoscimento della dignità dell’altro non va confuso con un’accoglienza buonista, altrimenti si rischia di formare dei “nidificatori”, cioè persone che, nascoste dentro un nido, cercano soltanto di soddisfare i propri bisogni quotidiani.
Autonomia. La vita comunitaria, al contrario, deve essere capace, nella sua fecondità, di generare persone “autonome”. Non si tratta di un’autonomia precedente all’esperienza comunitaria, ma di una che trova in quest’ultima la sua forma esistenziale: un “io” impregnato dal “noi”. E qui entra in gioco la costituzione della propria identità, che – secondo l’autrice – deve essere caratterizzata da: un’esperienza unitaria di sé (per evitare di identificarsi con altri e attribuire loro i propri sentimenti), una stabile autostima (che non oscilli in ogni circostanza in base al giudizio altrui) e una capacità di regolare l’esperienza emotiva (l’adulto deve perseguire l’autenticità, e non la spontaneità che è tipica del bambino). La vera autonomia non porta alla rigidità morale e dottrinale (che consiste nell’incapacità di compiere un cammino, aggrappandosi a forme esteriori), ma al raggiungimento dell’empatia, e cioè di un nuovo modo di relazionarsi verso gli altri, mettendo in gioco tutta la propria interiorità.
Il presente volume di Chiara D’Urbano è un prezioso contributo per chi decide di intraprendere un particolare cammino di discernimento vocazionale indirizzato alla vita comune. Si può evincere da queste pagine l’importanza che ricopre una presenza di specialisti psicologi nell’équipe formativa, evitando in questo modo, da un lato, inutili e inappropriate chiusure all’accompagnamento psicologico, e dall’altro, pericolose riduzioni del discernimento vocazionale a una riuscita terapeutica. Siamo in cammino.