di Alessandro Clemenzia • È incredibilmente attraente cogliere la portata teologica della semplicità, in parole e gesti, di Papa Francesco, e lo stupore in cui via via ci imbattiamo per l’indiscutibile provocazione che ci viene rivolta. Leggendo i suoi diversi pronunciamenti, si può osservare come egli sia portatore di una proposta innovativa di pensiero, non perché parli della teologia come oggetto preferenziale del suo discorso, ma perché teologico è lo sguardo con cui legge la realtà.
Questo trova una sua verificabilità nell’esperienza; basti intravedere la portata ecclesiologica del discorso che Papa Bergoglio ha pronunciato questa estate ai vescovi dell’Asia, in occasione del suo viaggio apostolico nella Repubblica di Corea. Senza avere la presunzione di offrire chissà quale definizione di Chiesa, egli ha offerto delle coordinate essenziali circa una possibile odierna autocoscienza ecclesiale. Già in altre circostanze aveva presentato come modello una Chiesa non chiusa in se stessa, ma aperta e in una costante tensione di uscita; in questa occasione il Papa ha recuperato questo pensiero, spostando l’attenzione sull’identità ecclesiale. In diversi pronunciamenti, infatti, aveva indicato l’importanza del dialogo per la vita della Chiesa, qui invece egli è partito da una domanda ulteriore: «Ma nell’interpretare il cammino del dialogo con individui e culture, quale dev’essere il nostro punto di partenza e il nostro punto di riferimento fondamentale che ci guida verso la nostra mèta?». Questo punto, egli spiega, è l’identità della Chiesa.
Contro qualsiasi forma di sincretismo, frutto di una confusa mescolanza che tenta di arrivare ad un incontro con l’altro appiattendo le differenze, egli afferma che, perché ci sia dialogo, è necessario prima di tutto essere pienamente consapevoli della propria identità, scorgendo in essa la condizione di possibilità per accogliere l’altro, proprio in quanto altro. La consapevolezza del proprio “io” scaturisce, spiega il Papa, dal superamento di tre ingannevoli abbagli: il primo è il relativismo che, recuperando l’immagine del Papa, scuote «la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione». Un secondo abbaglio è la superficialità: atteggiamento di chi tende «a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano». Il terzo, infine, «l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti».
Il recupero dell’identità ecclesiale si trova, spiega Francesco, in Cristo, Colui che è stato crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme, in un luogo sconsacrato. È da Lì, da Lui, che prende avvio il dialogo.
E perché il dialogo sia autentico, altro passaggio interessante del discorso all’episcopato asiatico, è necessario non solo avere una piena consapevolezza della propria identità, ma richiede anche una capacità di empatia, che trova nella natura stessa della Chiesa la condizione di possibilità. Spiega il Papa: «La sfida che ci si pone è quella di non limitarci all’ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta a loro più a cuore». Perché questo accada, insiste Francesco, è importante avere uno sguardo contemplativo nel riconoscere l’altro come parte integrante di sé, fino ad arrivare a vedere la realtà con lo sguardo dell’altro. E, citando Benedetto XVI, ricorda: «La Chiesa non nasce per proselitismo, ma per attrazione»; attrazione e fascino che sgorgano dalla pura accoglienza dell’altro.
La novità di questo discorso sta proprio nel recupero di una componente essenziale dell’identità della Chiesa, dove l’altro (chiunque esso sia), il “tu”, non è qualcuno di esterno dove l’“io” ecclesiale è diretto per entrare in dialogo, ma fa parte della natura stessa della Chiesa. L’io ecclesiale contiene già in sé il suo tu. Un dialogo vero, spiega il Papa, deve germinare da questa previa consapevolezza identitaria.
A partire da quanto Papa Francesco ha asserito, nasce quasi prepotentemente una domanda che non può essere tacciata come ovvia: quale autocoscienza ecclesiale può scaturire dalla consapevolezza che l’altro (ciò che non è Chiesa) fa già parte della propria identità più profonda?