di Elia Carrai • Le emergenze, nel senso innanzitutto di insorgenze, con cui oggi siamo costretti a paragonarci (che sia immigrazione, populismo, conflitto tra sovranità nazionale e macrosistemi economici etc…) sono la manifestazione di una crisi più profonda e radicale, una crisi che coinvolge innanzitutto il soggetto nella sua autocoscienza e, proprio così nel suo esercizio del potere. Nel mondo della tecnica e del dominio (quasi)incontrastato sulla natura, paradossalmente è in atto da decenni quella che potremmo definire una “crisi del potere personale”. Così metteva in guardia Emmanuel Mounier: «L’uomo europeo si trova nella situazione del viaggiatore lanciato a tutta velocità in un’auto che non sa guidare, accanto al conducente morto all’improvviso. Ha perso le leve di comando dell’universo da lui forgiato, lo vedete andare alla deriva in modo folle verso avvenimenti che non controlla più». Un fenomeno, questo, che potremmo definire come la “perdita dello spirito” da parte del potere. Un potere senza spirito che, secondo Guardini, non può che determinare una pericolosa mutazione del potere stesso e, con essa, una crisi del potere inteso in senso personale. Per Guardini è possibile parlare di potere in senso proprio esclusivamente a due condizioni: che si dia «da un lato una vera energia, capace di modificare la realtà delle cose, e di determinare le loro condizioni e le loro relazioni reciproche; dall’altro una coscienza che sia consapevole, una volontà che stabilisca delle mete ed una capacità che disponga della forza per raggiungere quelle mete. Tutto ciò -conclude Guardini- presuppone lo spirito, quella realtà che è nell’uomo e che è capace di sottrarsi alla immediata complessità della natura e di disporre liberamente di essa» (R.Guardini,La fine dell’epoca moderna. Il Potere, Brescia 1999, 118-119). L’“automobile del potere”, per riprendere l’immagine di Mounier, corrisponde certamente la prima condizione messa in luce dal teologo, essa appare realmente performante, con una capacità di manipolazione del reale quasi totale. A non trovare una sempre più esigua corrispondenza, tuttavia, è la seconda delle due condizioni: a pretendere di orientare il presente è sempre più un potere senza spirito (senz’anima, se volessimo tener conto anche della sua spietatezza), incapace di indirizzare in senso pienamente umano ed umanizzante quella forza tecnica effettivamente acquisita. Seppur da un versante completamente differente, Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo hanno unito alla denuncia dei pericoli di un potere spersonalizzato la critica ad una ragione ridotta a mera «razionalità strumentale», per la quale l’uomo paga l’accrescimento del suo potere con l’estraneazione progressiva da ciò su cui lo esercita. Questo potere che col tempo si rende sempre più impersonale, trovata la sua indipendenza dallo spirito dell’uomo, finisce per dotarsi di una sua anima artificiale ponendosi come fine ed orizzonte se stesso (burocrazia come superfetazione del potere in se stesso, von Mises, Bureaucracy, 1944 ). Se nella prima metà del secolo scorso si riteneva ancora che questa manifestazione totalizzante del potere avesse avuto il suo climax unicamente nelle forme di statalismo totalitario e che i sistemi liberali fossero immuni a questa dinamica, constatiamo oggi l’insufficienza di una simile restrizione. La crisi del potere personale si manifesta nella sua interezza proprio quando rivela di aver intaccato quei sistemi che si ritenevano liberali: anche lì il potere del soggetto entra in crisi a favore di un potere spersonalizzato. Nel momento in cui l’uomo non ha più consapevolezza del suo spirito, cioè di tutto ciò che in lui vi è di irriducibile e che lo rende capace di «sottrarsi all’immediata complessità della natura», alienatosi in molte false dipendenze e avendo smarrito l’unica vera dipendenza -quella dal mistero profondo dell’essere- si lascia sottrarre sempre più libertà in nome di false sicurezze e di soddisfazioni a buon mercato. L’esercizio del potere da parte dell’uomo, perché questo potere senz’anima si serve immancabilmente dell’uomo, finisce per avere come unico orizzonte quello dell’accrescimento del potere stesso il quale, da mezzo di relazione e trasformazione della realtà, si costituisce esso stesso come fine. Così, nella società delle false dipendenze, solamente chi ha i mezzi per istillare, alimentare e manovrare queste dipendenze surrogate si illuderà di aver raggiunto l’agognata “stanza dei bottoni”, senza rendersi conto di essersi reso ancora più irreparabilmente strumento di un sistema spersonalizzante, veicolo di un potere che non è affatto suo e che lo usa e lo supera da ogni parte. Così metteva in guardia Valéry rispetto a un uomo «i cui mezzi di conoscenza e di azione, sempre più potenti, lo spingono a realizzare deliberatamente e sistematicamente tutto ciò che sa e può, rispetto a ciò che è». In questa continua inadempienza ontologica, le false dipendenze in cui l’uomo si lascia irretire ed alienare, incanalano e assorbono il potere e la libertà dei soggetti entro un orizzonte ultimamente meccanico e prestabilito, implicito, mai confessato eppure onnipresente. La qualità propria della persona, quell’irriducibilità ultima per cui l’autocoscienza si può tradurre in azione, finisce per non entrare più in gioco e quel potere che segnava la grandezza dell’uomo innanzi alla natura stessa, facendone il signore ed il performatore, finisce per strutturarsi in un sistema dai tratti irriformabili alla stregua delle stesse leggi di natura: il potere con cui l’uomo si era emancipato dalle irruente potenze naturali, è divenuto infine una sovrastruttura rigida la quale, separata dalla persona, immobilizza quest’ultima in modo più drammatico di quanto le forze naturali ebbero un tempo a inchiodare i nostri antenati nelle caverne. Guardini lo poneva in luce chiaramente: «Uno sguardo d’insieme ci dà l’impressione che sia la natura, sia l’uomo stesso siano sempre più alla mercé dell’imperiosa pretesa del potere – economico, tecnico, organizzativo, statale. Sempre più nettamente si delinea una situazione in cui l’uomo tiene in suo potere la natura, ma insieme l’uomo tiene in suo potere l’uomo, e lo Stato tiene in suo potere il popolo e il circolo vizioso del sistema tecnico- economico tiene in suo potere la vita» (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il Potere, 160). L’uomo moderno ha edificato una struttura di potere che, per quanto egli possa riconoscere disumana, ha finito per considerare praticamente irriformabile. In questo senso la crisi del potere personale è l’autentica sfida che chiede oggi un ripensamento strutturale su tutti i fronti. La separazione profonda del potere dalla persona è tra i fatti più gravi di cui siamo oggi spettatori e di cui tanti avvenimenti non sono altro che la manifestazione terminale e superficiale; una scissione che rischia di ridurre sempre più le possibilità del singolo ad un mero giuoco circolare entro sistemi prefabbricati, una sorta di libertà surrogata.
Come dicevamo la causa ultima per cui la persona aliena quel potere suo proprio, e con esso ipoteca grandemente la sua stessa libertà entro sistemi di potere a lei estrinseci, avviene in ultima analisi per una mancanza di coscienza personale, un cedimento autocoscienziale. Lo spirito “lascia” il potere nella misura in cui l’uomo non è più disposto a riconoscer la sola ed autentica dipendenza rispetto alle infinite, piccole e meschine dipendenze che può fabbricarsi con le proprie mani. In questo senso solo la riscoperta della propria irriducibilità personale, della propria umanità come insieme specifico di urgenze, necessità ed evidenze oggettive, da poter contrapporre alla logica del puramente fattibile, può determinare un punto di rottura con i “sistemi di quiete” in cui il potere ha la pretesa di far stagnare l’umano. Solamente facendo, come afferma Mounier, dell’esistenza di persone libere e creatrici la nostra affermazione centrale, potremmo arrivare ad inserire proprio nel cuore di quelle strutture, che hanno come smarrito l’uomo -lo spirito-, «un principio di imprevedibilità che storna ogni velleità di sistemazione definitiva» superando finalmente «quella predilezione così diffusa ai nostri giorni, per una sorta di meccanismo di pensiero e d’azione, funzionante come un distributore automatico di soluzioni e di ordini» (E. Mounier, Il personalismo, Roma, 1966, 10). Entro un simile orizzonte, la sfida ad ogni sovrastruttura che si alimenta della libertà dell’uomo irretendolo è stata lanciata una volta per tutte dall’icastica affermazione del Cristo: «quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25). ‘Crisi del potere personale’ non è per noi che un’etichetta di comodo, utile su piano filosofico ad indicare la portata autentica della crisi che le nostre società stanno attraversando: una crisi per la quale non appare più evidente come il guadagnare il mondo, guadagnare una quanto più stabile posizione di influenza entro il grande sistema spersonalizzante e spersonalizzato, coincida con la progressiva ed inevitabile perdita di sé, ovvero la messa sempre più fra parentesi della propria irriducibilità umana, del proprio autentico bisogno. Oggi, come al tempo di Cristo, la sfida rimane una sfida alla libertà, una sfida che lancia una provocazione profonda: dove questa libertà è possibile? In chi la si vede, chi la testimonia e la vive? Urge, oggi più che mai, l’avvento di uomini liberi, liberati. La profonda crisi del potere personale costringe così, una volta di più, ad interrogarsi su cosa realmente possa liberare l’uomo.