di Antonio Lovascio • La più lunga e drammatica crisi politica-istituzionale dell’ultimo mezzo secolo si è sviluppata per 89 giorni come i migliori thriller di Alfred Hitchcock. Dopo 89 giorni è entrato finalmente in scena il governo politico giallo- verde guidato dal professor Giuseppe Conte, ma quante ne abbiamo viste! Sono state perfino messe in discussione la più alta carica della Repubblica garante della Costituzione e la nostra futura permanenza in Europa e nell’Area Euro, con l’Italia traballante in balia della speculazione finanziaria. Siffatto quadro apocalittico non ha fatto che aggravare quello che è sicuramente il nostro maggior problema: la crescita ed il lavoro. Emergenza non affrontata con serietà, concretezza e realismo dalle forze politiche che nel voto del 4 marzo hanno intercettato la protesta delle diseguaglianze, del disagio sociale e tuttora premiate dai sondaggi, M5S e Lega. Imperterriti i due “diarchi”(Di Maio e Salvini) continuano a proporre i loro “cavalli di battaglia” – il reddito di cittadinanza e la Flat Tax – che se attuati contemporaneamente, con un preventivo di spesa di oltre 100 miliardi senza coperture, porterebbero lo Stato alla bancarotta. Altro che “cambiamento”!
Il deficit italiano è un deficit di crescita. E da lì che si deve partire anche per dare ai giovani una prospettiva meno angosciante di quella che potrebbero assicurare i fautori del “cambiamento” a parole. La crescita di un Paese (e quindi il benessere dei suoi cittadini) dipende dalla sua produttività; che a sua volta è determinata dalle risorse di cui si dispone e da come le si impiega. L’Istat stima che il nostro tasso di mancata partecipazione al lavoro – che include, oltre ai disoccupati, anche gli inattivi, cioè coloro che non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a lavorare – si riduce attestandosi al 21,6% dal 22,5% dell’anno prima, ma rimane circa il doppio della media europea. Nel Mezzogiorno il tasso di mancata partecipazione al lavoro raggiunge il 37%, un livello più che doppio di quello del Centro-Nord.
Per lavorare di più bisogna crescere e creare occupazione. Ma occorre anche non abbandonarla troppo presto. Il contrario di chi vorrebbe abolire l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Negli ultimi cinque anni questa è fortunatamente aumentata di 2 anni e mezzo, da 81 a 83,5. Trent’anni fa era solo 76. Vivere più a lungo ma abbandonare il lavoro alla stessa età significa scaricare il peso delle pensioni sui giovani. La Lega, forte fra i lavoratori del Nord, è sempre stata contraria alla riforma delle pensioni: per questo cadde il primo governo Berlusconi nel 1994. Però ha sorpreso il M5S, che invece ha raccolto voti soprattutto fra i giovani: l’ha seguita nella richiesta di abolire la legge Fornero, che andrebbe modificata solo per eliminare i casi di palese iniquità. Non credo che i giovani elettori di Grillo e Di Maio preferiscano il reddito di cittadinanza o la vita a carico della pensione dei genitori, anziché un lavoro che li renda indipendenti, che dia loro dignità e consenta di costruirsi una famiglia uscendo dal precariato.
C’è poi un altro di fatto: la crescita dipende dagli investimenti. Erano crollati durante l’interminabile recessione, ma quelli privati fortunatamente stanno riprendendo: gli investimenti fissi lordi delle imprese hanno segnato lo scorso anno un aumento del 7,3 per cento. Un’indagine della Banca d’Italia (Bollettino economico, aprile 2018) richiamata sul “Corriere della Sera” dall’economista Francesco Giavazzi, indica che i programmi di investimento privati rimangono elevati, vicini ai massimi degli ultimi dieci anni, anche se in lieve decelerazione. Molto peggio gli investimenti delle amministrazioni pubbliche, che soffrono per le condizioni di bilancio, ma soprattutto per gli ostacoli creati dalla burocrazia.
Nuove riflessioni sollecitano anche la fragilità del quadro macroeconomico e la digitalizzazione con gli allarmanti “modelli” copiati dalla Cina. Siamo dentro una grande trasformazione che avrà effetti importanti sui modi e i tempi di lavoro. E che, proprio per questo, va gestita e accompagnata, con intelligenza e creatività. Cominciamo col mettere in fila alcuni aspetti inconfutabili. Oggi in Italia abbiamo raggiunto il picco storico di occupazione: oltre 23 milioni di persone. Ma è diminuito il monte-ore complessivo. Più persone occupate, ma sono molte quelle che non hanno il “tempo pieno”. Questo perché una quota importante del lavoro disponibile è fatta di frammenti che saturano tante piccole nicchie. Una seconda considerazione riguarda il diffondersi in Europa di occupazioni ad orario ridotto, associate a livelli elevati di produttività. Per ottenerla, molte imprese ad alto profilo tecnologico cominciano a considerare la possibilità di far lavorare meno ma più intensamente. La rimodulazione dell’orario di fabbrica o di ufficio (attorno alle 30 ore settimanali) – diffusa già in Olanda e in Germania – costituisce un fattore di cambiamento importante, ma “il lavorare meno, per lavorare tutti” in che misura è esportabile oggi in Italia?
Tutto questo fa capire perché ci attendono sfide molto importanti, che possiamo così sintetizzare. Primo: per una parte non piccola di occupati, il salario rischia di non bastare. Come integrarlo? Compensando la perdita di stipendio con strumenti di welfare aziendale; ma spetta al nuovo governo gialloverde il compito di trovare le soluzioni più idonee e meno dispersive. Secondo: occorre riorganizzare tutta la filiera della formazione, rendendola permanente ed articolata in modo più strutturato ed incisivo. Terzo: va ampliato il perimetro di cosa va considerato come “lavoro”, individuando fiscalmente nel sommerso quelle attività che oggi sfuggono ad ogni controllo. La trasformazione in corso forse aprirà le porte ad una stagione di innovazione istituzionale e sociale. Uscire dalla crisi significa smettere di rassegnarsi al peggio e tornare a progettare il meglio.