Cinquant’anni fa il «Credo del popolo di Dio» di Paolo VI

150 217 Francesco Vermigli
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Paolo-VI-in-preghiera-seriodi Francesco Vermigli • La mattina di domenica 30 giugno 1968, Paolo VI concludeva l’“anno della fede” e diciannovesimo centenario del martirio dei santi Pietro e Paolo. A cinquant’anni di distanza, quella chiusura diventa per noi anche l’occasione per ricordare il pontefice che il prossimo 14 ottobre verrà canonizzato da papa Francesco e che guidò la Chiesa in uno dei tornanti più difficili e complessi della sua storia recente. Nell’atto di dare chiusura all’anno dedicato alla fede, davanti alla Basilica di San Pietro pronunciò solennemente e a nome dell’intera comunità ecclesiale una professione di fede, nota come il “Credo del popolo di Dio”. La ricordiamo non tanto proponendone un’analisi dettagliata – che sarebbe grandemente esorbitante rispetto allo spazio di questo articolo – ma cercando di collocare tale professione nel quadro generale della Chiesa dell’epoca.

Una brevissima presentazione pare tuttavia necessaria. Il Credo si ispira in prima battuta al Simbolo niceno-costantinopolitano; ma accade che nella professione di Paolo VI esso venga di molto ampliato, sia approfondendo articoli di fede già presenti in quell’antica professione, sia aggiungendone altri appartenenti alla tradizione della Chiesa. La professione si pone dunque come una dettagliata e argomentata presentazione della fede cattolica, per come essa si è articolata e lentamente si è accumulata nel corso dei secoli. Gli storici riconducono lo spunto originario di tale professione certamente all’interessamento – se non anche all’intervento – di Jacques Maritain e del cardinale svizzero Charles Journet, nei mesi a cavallo tra il 1967 e il 1968.

Ma se questa è stata l’origine immediata della formulazione, fermiamoci su quella che di essa fu l’origine remota: a questo scopo, viene in aiuto lo stesso discorso tenuto dal papa in quell’occasione. Prima della vera e propria proclamazione del Credo, Paolo VI offriva il senso di tale professione di fede e il modo con cui invitava a intenderla. Una cosa attrae l’attenzione in tempi come i nostri che si direbbero per eccellenza a-dogmatici e che riconoscono un’accezione meramente negativa a parole come “dottrina” o a termini simili: l’insistenza con cui papa Montini rimanda a quella che definisce l’«immortale tradizione della santa Chiesa di Dio»; e lo fa proprio in ragione della particolare stagione ecclesiale sempre a rischio, dice il papa nel suo discorso, di turbamenti e perplessità. In altri termini, è il contesto ecclesiale postconciliare che spiega l’intervento di Montini: non è da dimenticare che quelli erano i mesi in cui risuonava ancora fortissima l’eco dell’uscita del cosiddetto “Catechismo olandese”, i mesi delle discussioni esacerbate e delle polemiche aspre tra centro e periferia, tra teologi e vescovi. Ma perché parlare di un Credo e perché definirlo “del popolo di Dio”?

Per sua espressa volontà, Paolo VI si riconnette all’epoca antica delle definizioni della fede; di quelle formule, cioè, che sono chiamate letteralmente a tracciare i confini (de-finire) dell’appartenenza alla Chiesa. Il papa richiama la dimensione dogmatica dell’essere credenti, secondo una tradizione che si direbbe ispirarsi alle parole chiarissime di san Giovanni circa il carattere intrinsecamente dottrinale della rivelazione di Cristo («Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie», 2 Gv 9). Nel Paolo VI che parlò quella mattina di cinquant’anni fa, fu il successore di Pietro a prendere la parola a nome di tutta la comunità dei credenti, per offrire «una ferma testimonianza alla Verità divina, affidata alla Chiesa perché essa ne dia l’annunzio a tutte le genti».

E tuttavia, non bastano queste considerazioni a spiegare le ragioni della denominazione precisa di questo simbolo novecentesco. Parlare di “popolo di Dio” significa far riferimento ad una delle categorie più note dell’ecclesiologia conciliare; sebbene un’incipiente diffusione di tale formula sia facilmente rintracciabile tra i teologi più attenti del periodo precedente al Vaticano II. Definire questo simbolo come del popolo di Dio, non potrebbe allora sembrare come un involontario cerchiobottismo del papa tra ciò che c’è di più antico e ciò che è nuovo e conciliare?

Forse è solo a noi che viviamo l’epoca dell’idiosincrasia a tutto ciò che possa odorare di dogmatico, che potrà sembrare contraddittorio riferirsi ad un simbolo di fede e definirlo in contemporanea “del popolo di Dio”. In fondo, si tratta semplicemente di ritornare all’idea tradizionale secondo la quale la dottrina lentamente si forma e lentamente si sviluppa proprio a seguito delle sollecitazioni più profonde della comunità dei credenti. La storia consegna alla Chiesa la consapevolezza che non potrà mai accadere che gli articoli dei quali si costituisce la dottrina cattolica, non abbiano a che fare con la salvezza dei credenti.

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Francesco Vermigli

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