Ricchezza in parole povere

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Cardinale-Gianfranco-Ravasi-11di Giovanni Campanella • Nel marzo 2018, l’Editrice Dehoniane Bologna ha pubblicato, all’interno della collana “Le ispiere”, un piccolo libretto intitolato La voce del silenzio e scritto dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura e della Pontificia commissione di archeologia sacra.

Il libretto è un elogio della Bibbia e mette in evidenza quanto essa abbia influenzato tutte le dimensioni della cultura mondiale sacra e profana. Esprime inoltre lo stupore nei confronti di un Dio che accetta di farsi veicolare dalla povera e fragile parola umana.

Nel primo capitoletto (Il grande codice della cultura occidentale), Ravasi passa velocemente in rassegna alcuni noti letterati, alcuni “insospettabili”, che hanno avuto un debole per la Sacra Scrittura. Perfino Friedrich Wilhelm Nietzsche, non proprio benigno nei confronti della religione, aveva scritto in Aurora:

«Per noi Abramo è più di ogni altra persona, della storia greca o tedesca; tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca, c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera» (citato a p. 6).

Nel secondo capitoletto (La debolezza della Parola), si assimila la celebre “kénosis” (“abbassamento” o più precisamente “svuotamento”), menzionata nella lettera di San Paolo ai Filippesi per indicare l’incarnazione e passione del Figlio di Dio, all’atto di Dio di affidarsi all’esile parola umana per comunicarsi. E per di più gli è piaciuto farlo soprattutto in una lingua povera. Anche qui verrebbe in mente il San Paolo della seconda lettera ai Corinzi: nella debolezza, l’azione di Dio è ancora più manifesta. «Si pensi che tutto il vocabolario dell’Antico Testamento, il lessico ebraico biblico, è formato soltanto da 5.750 parole, compresi gli avverbi, i segni dell’accusativo e alcuni segni marginali» (p. 12). Non è una lingua grandiosa dotata di centinaia di migliaia di vocaboli, come quelle moderne a cui siamo abituati, ma una lingua «pietrosa come il deserto da cui proveniva, una lingua di pastori, espressione di una civiltà nomadica» (ibidem). Eppure ha dato forma a uno scrigno preziosissimo che esprime Dio all’uomo.

Il terzo capitoletto (Gli spazi bianchi del silenzio) approfondisce il senso del titolo di tutto il libretto. Come il vertice del dialogo di due innamorati sta nel guardarsi negli occhi in silenzio, Dio predilige il silenzio per mettersi in dialogo con l’uomo. Lo scopre Elia, che riconosce Dio in un evento che il primo libro dei Re esprime con un ossimoro accostando “voce” e “silenzio”: «una voce di silenzio sottile».

Il titolo del successivo capitoletto, La diafanìa della Parola, richiama Teilhard De Chardin, secondo il quale «la parola dovrebbe essere una diafanìa, dovrebbe cioè essere così trasparente da riuscire a mostrare la luce che sta al di là, l’essenza, la sostanza delle cose, e non diventare uno schermo opaco» (p. 24). La lingua della Bibbia trasmette i suoi densi significati non solo attraverso ricchi simboli ma anche per mezzo della suo stesso suono. Ravasi lo espone egregiamente in questo bel passo:

«Ora, due versi, che sono quasi come l’apice ideale del Cantico dei Cantici, anche perché si trovano in posizioni strategiche all’interno del poemetto (2,16; 6,3), esprimono il loro “linguaggio” attraverso la “lingua” stessa. Anche non conoscendo l’ebraico, ci si accorge che il poeta ha voluto dire il suo messaggio attraverso la sua “lingua”, ossia l’ebraico, attraverso il suo suono, la sua musicalità. I due versi, infatti, sono dominati da un suono che continua a ripetersi: il suono -î- corrisponde alla prima persona, come in italiano, “io”, “mio”, e il suono -ô- evoca la terza persona, “lui”, “suo”. La protagonista nel Cantico dei cantici, in un contesto maschilista come quello orientale, è la donna. È lei che fa questa dichiarazione d’amore e di mutua appartenenza tra i due e dice: Dodî lî wa’ani lô … ‘Anî ledôdî wedôdî lî. Questo suono -î- è reiterato, per indicare che è tutta se stessa che in quel momento si consacra al suo dôdî, l’amato, espresso attraverso il suono -ô-, e al tempo stesso è fermamente convinta che il suo amato sia consacrato a lei» (pp. 28-29).

Il quinto capitoletto (L’alfabeto colorato dell’arte) si smarca dall’ambito strettamente letterario ed evidenzia come la Sacra Scrittura non abbia mai smesso di pervadere profondamente anche le altri arti, in tutte le epoche, fino ai nostri giorni. Anche “nolenti”, anche nonostante un incalzante razionalismo ateo, aggiungo io. Anche criticandone il messaggio o mettendola sotto accusa, si ottiene uno stesso risultato, se non addirittura talvolta lo si rafforza: la Bibbia resta tra i protagonisti principali. Rifugio o pietra d’inciampo o punto fastidioso di domanda ….. ma sempre al centro. Ravasi menziona pittori come Chagall e Gauguin (è suo La visione dopo il sermone, il quadro in copertina), che hanno mescolato scene bibliche con immagini di moderna quotidianità, e la musica immortale di Wolfgang Amadeus Mozart, che, nonostante il rapporto ambiguo con la fede, seppe plasmare le sue note sul respiro profondo della Scrittura.

L’ultimo breve capitoletto (La forza della Parola) sottolinea la grande sete di senso delle nuove generazioni. La Parola, con la sua forza, può farsi strada tra i moderni sberleffi per appagare questa sete e far sì che lo Sposo (Dio) raggiunga la Sua Sposa (l’umanità).

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Giovanni Campanella

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