di Francesco Vermigli • Si racconta che in una città europea come nessun’altra un noto filosofo del secolo passato – fumando il suo solito sigaro e contemplando dal suo balcone fiumane di giovani sognanti e gridanti – abbia urlato più forte di loro una frase che apparve ben presto profetica: “diventerete tutti notai!”. Notai in effetti lo divennero… o mestieri borghesi affini. Era il maggio 1968: quella città era Parigi, quel filosofo era Raymond Aron. Nella seconda parte di quel medesimo anno – di cui in questi mesi si celebrerà, non v’è dubbio, il cinquantesimo anniversario – veniva simbolicamente alla morte uno dei teologi più rilevanti del Novecento: Romano Guardini, morto a Monaco di Baviera la sera del I ottobre. Simbolicamente, si diceva, perché Guardini ha incarnato nella sua stessa persona l’anelito di riforma di quella giovane generazione; eppure, preservando quell’anelito dal suo esangue e sterile riflusso nel sistema che quei giovani del Maggio parigino volevano riformare, se non addirittura sovvertire.
Romano Guardini fu personaggio originale nel panorama della cultura novecentesca: nato in Italia, ma ben presto divenuto cittadino tedesco, rappresenta in virtù anche della città di origine – Verona, dove l’Adige unisce il mondo teutonico con la Pianura Padana e l’Italia – la simbiosi tra due indoli distantissime, eppure nella loro storia sempre in continuo dialogo: il genio germanico e quello italiano, che fondendosi nel Guardini danno luogo ad una cultura mai inutilmente erudita, ad un linguaggio teologico sempre solare e ad un tempo preciso. Ora, pare proprio sia la cifra della riforma ciò che connota in profondità il pensiero di Guardini, un pensiero che si fa poi in maniera naturale vita e impegno educativo.
Fin dall’inizio della sua esperienza di docente, Guardini aggiunse infatti alle fatiche accademiche uno zelo tutto particolare per la formazione della gioventù del suo Paese da meritargli il titolo di praeceptor Germaniae; precettore di quella gioventù, che a distanza di pochi anni avrebbe dovuto subire ben altre sollecitazioni ad opera di uomini in camicia bruna. Divenne responsabile del movimento giovanile Quickborn che era solito riunirsi nel castello di Rothenfels sul Meno: qui percepì le aspirazioni più profonde della gioventù degli anni ’20 e ’30, cercando di preservarla dall’assecondare le sirene della sobillazione totalitaria. Di tale gioventù – in cui già avvertiva lo scolorirsi del modello della Cristianità – colse gli aneliti più profondi: in quei giovani cattolici tedeschi vedeva “rinascere la Chiesa nelle anime”, secondo l’efficacissima e celeberrima immagine coniata da lui stesso.
Luogo specifico di questo impegno formativo fu la liturgia: la frequentazione fin da giovane dell’abbazia benedettina di Beuron – luogo tra i più rilevanti a livello europeo per quanto atteneva ai fermenti del rinnovamento liturgico – e l’esperienza con i giovani furono un tutt’uno e la prima cristallizzazione di quell’anelito riformatore fu la ben nota opera Lo spirito della liturgia. A leggerla bene, si coglie in quest’opera forse il segreto di un rinnovamento, che non spezza i legami con il passato e salvaguarda la continuità con la Tradizione. Si resta sorpresi dal fatto che in un’opera sulla liturgia che mira alla rinnovazione, non ci si dilunghi su cose da fare e su cose da non fare nella celebrazione: piuttosto si volge l’attenzione al significato profondo dell’atto di culto cristiano. Si mira allo “spirito della liturgia”, appunto, al recupero del suo senso; a fronte del formalismo, del rubricismo e dell’astrattismo in cui la scienza liturgica di fine ‘800 e inizio ‘900 pareva essere caduta.
La liturgia deve essere riconosciuta come dono, come gratuità, come gioco: riformare la liturgia significa allora tornare a comprenderla in questo modo, cioè come espressione pienamente umana di qualcosa che viene donato da Dio. Rinnovare la liturgia, nell’ottica del Guardini, significa acquistare consapevolezza che essa è manifestazione dell’azione salvifica preveniente di Dio, resa in linguaggio e in gesti del tutto umani. La riforma della liturgia, dice il sacerdote italo-tedesco, come ogni riforma all’interno della Chiesa non agisce per cambiamenti di forme, di strutture e di aspetti esteriori, ma agisce in profondità: per approfondimento, cioè, di senso e di valore. Per questo lo “spirito della liturgia” non conosce né strattoni né stagnazioni, né fughe in avanti né restaurazioni: agisce per progressiva comprensione dell’interiore realtà umano-divina che la connota.
Nel 1964, a pochi anni dalla morte, in pieno Concilio, si rivolse al Congresso liturgico riunito a Magonza, domandando se la liturgia sia così legata al passato della Chiesa da doverla abbandonare, oppure se essa abbia a che fare con l’essenziale dell’uomo. Se essa ha a che fare con l’essenza dell’uomo, come pare, la misura di ogni riforma della liturgia sarà la corrispondenza all’essenza corporea e spirituale dell’uomo e alla priorità dell’azione di Dio nella storia. Ma, a ben vedere, sembra proprio che questa corrispondenza sia la misura di ogni riforma ecclesiale.