di Carlo Nardi • «Io sono la via, la verità, la vita». Sono parole di Gesù durante l’ultima cena, dopo la lavanda dei piedi, nel Vangelo secondo Giovanni (14,16). Lapidario è sant’Agostino nel suo Commento: Gesù è «via in quanto uomo, verità e vita in quanto Dio» (Su Giovanni 12,4; 34,9). E così mi viene in mente quel grappolo di giaculatorie col «benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero uomo», specialmente quando si ripone il Santissimo dopo la benedizione.
Dunque: “vero Dio e vero uomo”. E invece fin dal primo cristianesimo si è corso il rischio di far la tara. Mi spiego. Si è avuto la tentazione di rosicchiare – mi pare che la parola renda bene l’idea – ora un po’ dell’umanità, ora della divinità, e spesso tutte e due. Par di sentirli gli antichi – e i moderni non di meno – specialmente tra i greci del tempo: “Com’è possibile che sia davvero un uomo? ma neppure Dio per davvero. Sovrumano, divino, quanto si vuole, ma vero Dio e vero uomo … E intanto, andiamo a prenderci un caffè!” Poteva essere il tono, ovviamente non le parole, degli ateniesi dopo aver sentito san Paolo parlare di risurrezione di Cristo, di risurrezione della carne, insomma di ciccia, di cose troppo concrete e nemmeno troppo disdicevoli (At 17).
Già, perché secondo i greci il loro Dio o, meglio, la loro divinità non avrebbe creato – fatto dal nulla – la materia, ma se l’avrebbe trovata davanti e l’avrebbe messa a posto alla meglio. Di conseguenza, non poteva sporcarsi le mani con quella pasta. Sicché gli dei degli antichi appaiono, si trasformano e ritrasformano. Non s’incarnano. Ci sarebbero state metamorfosi, quante se ne vuole, ma non l’essersi fatto uomo.
Così gli antichi tra Dio e l’uomo introducevano intermediari e tra portieri, uscieri, camerieri e, su su, messi, consoli, ambasciatori, prefetti, ministri, gran ciambellani, feldmarescialli, visir … non si finiva più, quanto ad anticamere di anticamere. Irraggiungibile era il Sovrano dei cieli da parte di noi quaggiù, lontani lontani. Come povere “formicoline”, dovremmo contentarci di «interminabili genealogie» di intermediari. Paolo o chi per lui metteva in guardia dal credere a queste cose (1 Tim 1,4). E invece, qualche tempo fa, nuovi o vecchi angeli popolavano le nostre librerie: si ritenevano entità superiori ad uso e consumo per risolvere tutti i problemi: salute amore quattrini, per non esser da meno degli antichi.
I pagani pensavano di avere intermediari tra i mortali e la divinità. Credevano in esseri divino. Tra questi c’era Ermete dei greci e per i romani Mercurio, il messaggero, in certo senso ‘angelo’ e ‘diacono’ degli dei: era una specie di segretario di Giove con le «suppliche e l’inchieste de’ mortali» (Tassoni, La secchia rapita), scattante certo, ma anche molto ragazzo, molto svagolato: un po’ come tutti i ragazzi di primo pelo, che chissà dove hanno il capo. Che poi si sa dove ce l’hanno, tutti proteine e ormoni come sono.
Figuriamoci se erano affidabili eroi e semidei, mezzi uomini e mezzi dei, e neppure uomini né dei per bene! come Titone, uno schianto di ragazzo di cui era cotta la dea Aurora, che gl’impetrò dagli Olimpi l’immortalità, dimenticandosi però nella fretta di chiedere l’eterna giovinezza, sicché, la bellissima dalle mani di rosa, si ritrovò nel talamo il suo divo sempre più sfiorito, senza che potesse, una buona volta, tirare le cuoia.
Altri personaggi muoiono e rinascono? Un’apoteosi non si negava a nessuno. Toccò persino all’imperatore Claudio, al quale, – insinuava maliziosetto Seneca -, per arrivare finalmente a capire d’esser morto, ci volle il vedere, da lassù, il suo funerale!
Poi c’erano i démoni, con l’accento sulla e, a scorrazzare su e giù per il cielo, come eros, quello di Platone, desiderio di sapere, amare, godere, ricco del suo anelito, povero perché sempre alla ricerca: riportava agli uomini i comandi degli dei e agli dei le preghiere dei mortali. Ma se questi démoni non ne avevano voglia o si arrabbiavano, non c’era da stare allegri. Giù la saracinesca e si chiude bottega: comunicazioni interrotte, trasmissioni da riprendersi il più presto possibile, ma a discrezione di loro, da dèmoni diventati birboni, demòni. Sono gli esiti di molti intermediari pagani, esseri che stanno tra Dio e gli uomini, ma non sono è né Dio né uomini.
E il mediatore cristiano, si direbbe filosoficamente, o, più semplicemente, nostro signor Gesù Cristo, l’«unico mediatore tra Dio e gli uomini l’uomo Cristo Gesù» (1 Tim 2,5), come si colloca a somiglianze e differenze? Egli, Dio e uomo, raggiunge i due estremi, Dio e l’uomo, il Creatore e la creatura, che di per sé sono infinitamente lontani e nel contempo immediatamente vicini. In lui divinità e umanità sono l’unica persona del Figlio di Dio, fatto uomo: in lui, appunto, che è fonte della verità e della vita, perché è Dio, e via, perché uomo. Pontefice, è il ponte tra Dio e noi, noi e Dio. La comunicazione c’è – «per Cristo, con Cristo e in Cristo», come canta la liturgia -, perché è unico mediatore, ed egli sa di che pasta siam fatti. Della sua, e come di un fratello ci si può fidare. Da lui dipende ogni altra mediazione di preghiera, di intercessione, di ministero. Ma solo in lui tutto questo ha senso ed efficacia.
Occorre ripeterlo? Perché no? Gli angeli non se ne hanno a male. Quelli almeno che salgono e scendono sulla scala che Giacobbe vide, poggiata in terra, raggiungere il cielo (Gen 28,12): scala che è Gesù, Gesù via e meta, fratello e Signore (Gv 1,51).