di Gianni Cioli • Recentemente, sulle pagine di questa stessa rivista, affermavo che «una rinnovata attenzione alle virtù potrebbe […] avere ricadute interessanti e stimolanti sulla celebrazione del sacramento della penitenza, ponendo sotto una nuova luce gli atti del penitente come pure l’opera di discernimento che il confessore deve compiere sulla confessione dei peccati. Una preparazione al sacramento nell’orizzonte della morale delle virtù, senza negare l’utilità di un confronto con i comandamenti, potrà essere di aiuto al penitente a ponderare meglio le proprie disposizioni interiori da cui i comportamenti esteriori scaturiscono e a lavorare su di esse con l’obiettivo di una conversione sincera».
Vorrei adesso riflettere su come non solo la conoscenza ma anche la pratica delle virtù sia un presupposto imprescindibile per lo stesso ministro del sacramento: per essere buoni confessori bisogna studiare ma soprattutto vivere le virtù.
La prima virtù per essere autentici ministri del perdono è sicuramente la fede. Sappiamo che un sacramento è valido a prescindere dalla fede di chi lo amministra, ma il confessore curerà tanto meglio la celebrazione del sacramento e saprà rispondere tanto più efficacemente alle esigenze dei penitenti quanto più sarà forte e viva la sua convinzione di fede che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Anche la speranza è una virtù fondamentale per il ministro del perdono, il quale è chiamato a sperare per tutti lasciandosi illuminare dal dono del santo timore di Dio, ovvero a non disperare mai per nessuno senza cadere nella presunzione di una salvezza a buon mercato. La speranza del confessore, se forte e viva, può accendere e sostenere la speranza del penitente.
Fede e speranza trovano il loro coronamento nella virtù della carità e, più specificamente, per il confessore nella carità pastorale che spinge ad amare e a imitare il Signore Gesù nell’obbedienza al Padre il quale «non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,14). La carità pastorale che chiama il ministro ordinato a dare la vita può, molto semplicemente ed efficacemente, concretizzarsi nel tempo speso ad ascoltare davvero col cuore le storie di vite ferite dal peccato per versare in quelle piaghe «l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio VIII). La carità pastorale chiama il ministro a vedere sempre in coloro che il Signore gli affida, anche in occasione della confessione, non dei problemi da risolvere, ma delle persone da amare.
La carità, e il caso del confessore non fa eccezione, per operare ha bisogno d’essere sostenuta e integrata dalle virtù cardinali.
Il confessore dovrà pertanto essere prudente, cioè capace di valutare in maniera saggia quello che ascolta, di ponderare l’effetto delle sue parole nella mente e nel cuore dei penitenti, di discernere e di proporre la penitenza opportuna. In tutto questo egli dovrà ovviamente essere sostenuto anche dalla virtù della giustizia e della fortezza perché non gli manchi mai il coraggio di testimoniare il vangelo e di dire quello che è necessario affinché la carità rimanga sempre tale nella verità. Al confessore non dovrà difettare la virtù della temperanza ad esempio nella capacità di rimanere umile offrendo come punto di riferimento al penitente sempre il Signore e mai se stesso; nella capacità di gestire i propri moti d’ira per non ferire e allontanare le persone che, pur con tutti i loro limiti, fragilità e contraddizioni, chiedono di riconciliarsi col Signore; e, infine, nella capacità di rifuggire atteggiamenti di curiosità che potrebbero risultare imbarazzanti per il penitente o, comunque, condurre fuori il discorso dall’essenziale.
Per concludere direi che nessuno potrà mai essere un buon confessore se non è, lui per primo, un buon penitente. E un confessore non potrà essere un buon educatore alle virtù, come un buon confessore dovrebbe anche essere, se innanzitutto non educa alle virtù se stesso.