Papa Francesco e la cacciata dei mafiosi dal Tempio

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di Antonio Lovascio •  «La Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio», scriveva Leonardo Sciascia nel “Giorno della civetta” (1961). Cosa direbbe il romanziere siciliano – tra i primi a denunciare gli orrori della mafia – nel vedere oggi Papa Francesco cacciare i mercanti dal tempio? E’ passato più di mezzo secolo. Le Cosche, ovunque infiltrate, sono sempre attive e spesso impunite, seminano sangue, terrore e chiedono il “pizzo” in tutta la Penisola. Ma ora le hanno “spiazzate” e sconvolte gli anatemi incessanti di Bergoglio, che pur si è detto pronto all’”ascolto”  ed al “perdono”, quando, con semplicità, umanità e spirito di carità, ha portato conforto ai detenuti di Castrovillari. Le invettive lanciate, nelle sempre più frequenti visite pastorali al Sud, contro “gli uomini senza onore” (“Non sono in comunione con Dio”) fanno riflettere. Verrebbe da dire che i boss della ’ndrangheta rinchiusi nel carcere di Larino, rifiutando la messa, accettano la scomunica, magari si pentono; ma non è così. Purtroppo ribadiscono fedeltà ai Clan, cancellando ogni ipotesi di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Pretendono di continuare a uccidere, rubare e trafficare droga senza essere condannati come “peccatori”. Sfidano chi offre una cultura alternativa alla violenza. Indicano papa Francesco come nemico perché cerca di estirpare il seme mortale dei  Padrini e dei loro “picciotti”.

Un percorso aspro, quello intrapreso dal Pontefice argentino, ben consapevole – lo ha confidato in un conversazione con Eugenio Scalfari su “Repubblica”- del fatto che “ la mafia è uno Stato nello Stato, con un proprio dio”. Altrettanto convinto che “la maggior parte delle donne legate alle Cosche da vincoli di parentela (mogli, figlie e sorelle) frequentano assiduamente le chiese dei loro paesi, dove il sindaco e altre autorità locali sono spesso mafiose”. Ma ciò che più amareggia Papa Bergoglio “è che certi sacerdoti sono ancora troppo tiepidi nel denunciare il fenomeno mafioso; tutto questo sta cambiando e cambierà”.

Del resto il rapporto di stampo pagano delle “Cupole” e dei loro affiliati  con la religione, è sempre stato un modo di compensare lo scontro violento con la legge. Per rimuovere l’assuefazione a certi comportamenti, occorre una strategia di “purificazione” della pietà popolare, per evitare il ripetersi di casi come quelli delle processioni-shock di Oppido Mamertina e di Palermo, dove la statua della Madonna è stata fatta fermare e inchinare davanti alla casa  e all’agenzia di pompe funebri di due boss. I primi a sentirsi traditi sono stati proprio i preti e i vescovi della Calabria, della Sicilia e della Campania che non chiudono gli occhi. Chiese locali già finite sotto il tiro incrociato delle  polemiche, proprio sul fronte dei riti, delle rappresentazioni religiose e delle feste patronali: <L’esaltazione collettiva spesso fa perdere il senso del sacro. E la fatica di formare le coscienze è doppia>: lo ha ammesso monsignor Nunzio Galantino, il vescovo di Cassano Ionio che Bergoglio ha voluto  come segretario generale della Cei. Forse per averlo al suo fianco in questa difficile battaglia, che avrà tempi lunghi, e sarà una sorta di missione evangelica “a tappe”.  Già nel marzo scorso (incontrando a Roma i familiari delle vittime accompagnati da don Ciotti), aveva chiesto agli «uomini e alle donne mafiosi» di convertirsi e di cambiare vita «per non finire all’inferno».  Poi abbiamo assistito ad una sorta di escalation. Al dolore del Papa nella Terra dei fuochi (Caserta) dove le ecomafie seppelliscono veleni nel sottosuolo provocando malattie mortali nella popolazione innocente; seguito di poche settimane  al vibrante appello (ancora più incisivo con il richiamo alla scomunica) pronunciato dal Pontefice dalla Calabria. Ammonimenti forti, in continuità con lo storico anatema di Giovanni Paolo II, nella valle dei Templi di Agrigento: <Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”, aveva intimato ai mafiosi Papa Wojtyla col braccio teso, in abiti pontificali, impugnando la croce, con accanto il cardinale Pappalardo che già aveva paragonato la sua Palermo alla Segunto espugnata. Era il 9 maggio 1993, pochi mesi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino e quasi alla vigilia della strage dei Georgofili a Firenze, attentati ordinati da Riina, Bagarella e Provenzano. Le parole sono state quasi le stesse. Simile anche il richiamo a Dio e al suo castigo: al “giudizio”  il Papa Santo, all’inferno Bergoglio. Ma diverso il loro atteggiamento, come ha ben sottolineato sul “Corriere della Sera” il  principe dei vaticanisti, Luigi Accattoli: Giovanni Paolo II giudicante “nel nome di Cristo”, Francesco implorante come già Paolo VI, quando il 21 aprile 1978 scrisse agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere (“vi prego in ginocchio”) la liberazione di Aldo Moro.

La Chiesa si sente ancor più  legittimata ad alzare i toni della condanna non solo per la sua missione salvifica, ma per il tributo di energie spirituali e di sangue dato con l’esempio ed il sacrificio di preti coraggiosi, che – mettendo a rischio la loro vita al pari di tanti servitori della Giustizia e dello Stato – hanno sbattuto la porta in faccia ai mafiosi, cercando di spiegare com’era e com’è falsa la devozione esibita dagli uomini delle Cosche; e come la ‘ndrangheta non porta ricchezza, ma degrado e miseria, non soltanto morale. Don Giuseppe Puglisi (parroco del quartiere Brancaccio a Palermo, proclamato beato proprio all’inizio di questo pontificato, assassinato perché si batteva per il recupero dei tossicodipendenti e per togliere manodopera alla mafia); don Peppe Diana, ammazzato a Casal di Principe dalla Camorra: sono martiri, riconosciuti e frequentemente citati dagli stessi anticlericali.

Come scrisse Bertold Brecht, “è sventurato il popolo che ha bisogno di eroi”.  Ma rifarsi  a queste figure emblematiche può aiutare tutta la Chiesa a creare meccanismi in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società. Ha ragione Roberto Saviano:  nell’Italia della crisi e dell’eterna emergenza, i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Agli anatemi di Papa  Francesco deve però seguire, da parte della Politica e delle Istituzioni, una “scomunica” civile assoluta, che permetta di espellere la Piovra dalle dinamiche quotidiane, economiche e sociali, dalla microcriminalità e dal malaffare di cui si nutre, prosperando,  nei Grandi Appalti come nello smaltimento dei rifiuti.

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Antonio Lovascio

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