La comunione spirituale oggi

650 325 Francesco Vermigli
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WWtHfd0LsRYT-mbdi Francesco Vermigli • Appartiene alla tradizione della Chiesa una pratica «raccomandata da santi maestri di vita spirituale» (papa Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 55); pratica il cui riferimento magisteriale più solido e antico si direbbe un brano del cap. VIII del Decreto tridentino sul sacramento dell’eucarestia (DH 1648). Così recita quel passaggio di un capitolo che Trento dedica all’“uso” di tale sacramento: «quanto all’uso [dell’eucarestia] poi, i nostri padri distinsero giustamente e saggiamente tre modi di ricevere questo santo sacramento. Insegnarono, infatti, che alcuni lo ricevono solo sacramentalmente, come i peccatori; altri solo spiritualmente, e sono quelli che mangiando quel pane celeste solo con un atto di desiderio, per la fede viva, “che opera per mezzo della carità”, ne traggono frutto e vantaggio; i terzi lo ricevono sacramentalmente e insieme spiritualmente, e sono coloro che prima si esaminano e si preparano in modo da accostarsi rivestiti dell’abito nuziale a questa stessa mensa divina».

La linea che viene proposta da Trento per quanto attiene alla comunione non sacramentale, appare dunque quella del votum: si comunicano soltanto spiritualmente coloro che mediante la fede, con un atto di desiderio si uniscono al corpo di Cristo; evidentemente in ragione dell’esistenza di impedimenti alla comunione sacramentale, che pure Trento non specifica. Dal dettato tridentino emerge un’interessante alternativa tra coloro che si comunicano soltanto sacramentalmente e coloro che lo fanno solo spiritualmente: si noti che solo sui primi viene dato un giudizio negativo; nel momento in cui si dice che quelli che si comunicano solo sacramentalmente, lo fanno come i peccatori, cioè senza trarre beneficio dal sacramento, perché – si direbbe con Paolo – «chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore» (1 Cor 11,27).

Come sopra accennava Benedetto XVI nel brano tratto dalla Sacramentum caritatis, questa pratica può vantare dalla propria parte una quantità innumerevole di maestri spirituali: essi – in coerenza a quello che rileviamo a Trento – si concentrano sul carattere oblativo dell’atto di comunione spirituale e sul desiderio di unirsi al corpo di Cristo, in presenza di qualcosa che impedisce la comunione sacramentale. Così, nella preghiera tradizionale per la comunione spirituale si notano due elementi preponderanti: innanzitutto, che questo atto di desiderio non potrà essere indeterminato, come un generico voto di unirsi spiritualmente a Gesù, ma dovrà essere precisato come anelito ad unirsi al corpo di Cristo: «Gesù mio, io credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento». Quindi, si nota che ci si comunica spiritualmente per l’esistenza di impedimenti ad accedervi sacramentalmente: «Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore». Da queste parole (soprattutto da “poiché ora non posso…” e “vieni almeno…”) sembra sia da derivare che tale desiderio reca con sé l’impegno a comunicarsi sacramentalmente non appena possibile; non appena, cioè, vengano a cadere quegli stessi impedimenti che ostano alla comunicazione al corpo sacramentale di Cristo.

Per quanto non abbiamo qui intenzione di affrontare in maniera diretta la questione, il tema della comunione spirituale è rientrato in campo recentemente nel dibattito ecclesiale. Ci si è chiesti se non sia il modo di partecipare al mistero di Cristo per coloro che non possono ricevere sacramentalmente il suo corpo, a causa della loro condizione di vita. Così, ad esempio, Benedetto XVI nel discorso tenuto il 2 giugno 2012 al parco di Bresso per la Giornata Mondiale delle Famiglie di Milano: «Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche senza la ricezione “corporale” del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo». Ci pare però di notare che l’abituale approvazione e addirittura promozione della comunione spirituale – come desiderio autentico di comunicarsi al corpo di Cristo in presenza di impedimenti che si ritengono temporanei – richiede in questi casi una ricalibratura; dal momento che qui gli impedimenti non sono temporanei, ma legati ad una condizione di vita.

Forse un antico assioma della teologia cattolica può venire in soccorso a questi argomenti. È il principio siglato dalla formula latina: Deus non alligatur sacramentis; quella formula, cioè, che dichiara che la grazia divina può comunicarsi e agire al di fuori di una vita sacramentale ordinaria (cfr. Summa theologiae, III, q. 68, a. 2, Resp.). A tutto questo si lega anche la questione non meno cruciale se la partecipazione attiva e piena alla celebrazione eucaristica debba di per sé richiedere la comunione al corpo sacramentale di Cristo. Ci pare allora che percorrere la strada della comunione spirituale abbia a proprio fondamento un’idea grande e decisiva: la libertà di Dio di salvare e di comunicare la propria grazia in maniera insondabile e misteriosa.

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Francesco Vermigli

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