di Francesco Vermigli • Con la promulgazione del m.p. Magnum principium, papa Francesco ha stabilito che con l’inizio di questo mese entrino in vigore alcune modifiche al can. 838 del CIC; in particolare per quanto attiene al secondo e al terzo paragrafo. Si tratta di un canone tra quelli preliminari al libro IV, dedicato a «La funzione di santificare della Chiesa»; in modo specifico si tratta di un canone che afferma la competenza della Sede Apostolica e – a norma del diritto – del vescovo diocesano a regolare la liturgia, della quale il canone precedente sottolinea il carattere pubblico («Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa stessa»: can. 837, § 1). Si direbbe allora che regolare la liturgia spetta alla Chiesa in ragione del munus sanctificandi che in maniera precipua investe la liturgia e in ragione del carattere eminentemente pubblico della medesima azione liturgica. In modo particolare, le modifiche investono i paragrafi che cercano di chiarire il ruolo che in questa materia rivestono le Conferenze episcopali; per quanto attiene agli adattamenti alla liturgia romana e per quanto riguarda la traduzione dei libri liturgici.
Non riteniamo che in questa sede sia necessario entrare nello specifico delle modifiche. Per una migliore valutazione dell’entità dei cambiamenti è sufficiente risalire al testo del m.p., alla nota esplicativa e al commento dell’attuale segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti:
Ci piace solamente notare che le questioni principali su cui verte l’intervento insistono proprio sull’esatta comprensione di due lemmi latini: in particolare, cosa significano nel contesto del canone il verbo recognoscere (§ 2, in relazione agli adattamenti) e il sostantivo confirmatio (§ 3, in relazione alle traduzioni)? Cosa significano questi termini, rispetto all’azione che la Santa Sede svolge su aptationes e versiones preparate e approvate dalle Conferenze episcopali? In verità tanto dal testo del m.p., quanto dalla nota e dal commento si apprende che è della Congregazione per il Culto divino compiere un’opera di revisione attenta e analitica; un’opera che va ben oltre la mera autorizzazione degli adattamenti presentati o delle traduzioni proposte, giacché è alla Santa Sede che compete di regolare la liturgia, non meramente di autorizzarla. Vale a dire che spetta alla Santa Sede – o meglio al dicastero competente per questo scopo, la Congregazione per il Culto divino – accordare in unità tutti i suoni della liturgia romana.
Quest’ultimo nostro riferimento all’unità della liturgia romana trova facilmente appoggio nel testo stesso del documento pontificio; laddove si fa strada un senso elevato dell’unità e della sinfonia delle varie parti, delle quali si costituisce la liturgia («conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche con l’unità sostanziale del Rito Romano»; «sia reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale e che i libri liturgici tradotti, anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito Romano»). Nell’ambito dell’unità e della sinfonia della liturgia uno spazio non piccolo dovrà dunque essere riservato alla questione delle traduzioni dei libri liturgici.
Va quindi affermato con decisione che la traduzione dal latino nelle lingue volgari non è questione indifferente per quanto attiene alla salvaguardia e alla promozione dell’unità nella Chiesa. Come recita il can. 837 – con formula densa che il CIC prende da Sacrosanctum Concilium, 26 – la Chiesa è sacramentum unitatis; dunque non potrà mai accadere che la traduzione dei libri liturgici possa recare danno all’unità di cui la comunità dei credenti è sacramento. Donde si spiega anche la ragione dell’aggiunta di fideliter che il m.p. fa nel § 3, dal momento che la confirmatio da parte dell’organo competente della Santa Sede non potrà che darsi in presenza di versioni approntate fedelmente rispetto al testo latino. Non si tratta qui di discettare attorno alla teoria della traduzione; che affatica i traduttori – almeno in maniera implicita e nella prassi – dalla prima volta in cui qualcuno ha deciso di vertere un testo espresso in una lingua in un’altra. E non si tratta neppure di porre qui nuovamente la questione annosa circa il fatto se la traduzione debba essere letterale o ad sensum.
Si tratta di affermare qualcosa di più radicale: si tratta di affermare che l’opera di traduzione è un’opera della Chiesa, che sottostà alle dinamiche teologali che sostengono la stessa costituzione della comunità dei credenti. È innanzitutto un’opera che ha a che fare con la preghiera della Chiesa e che deve essere rispettosa della lex credendi e della lex vivendi; prima che essere dipendente dalla ricerca ossessiva della comprensibilità nella lingua di arrivo. In altri termini, il mestiere del traduttore, quando investe i testi liturgici, ha a che fare primariamente con la teologia e contribuisce ad una migliore comprensione del grande Mistero che è la Chiesa che cammina nella storia.