di Dario Chiapetti • L’interrogarsi sulla salvezza da sempre ha costituito per l’uomo il motore del pensare e del pensare teologico. Ciò è vero particolarmente nell’oggi. Segnati, poi, da un kairòs ecumenico, come tanti avvenimenti nella storia rivelano dal secolo scorso a questa parte, i tempi attuali si presentano, da un lato, come i recettori di una domanda umana acuta circa la salvezza, e che quindi spinge il pensiero in avanti, dall’altro, come i canali attraverso cui tale spinta può muoversi.
La salvezza chiama in causa la grazia, la grazia la giustificazione, e tutto ciò, come si sta realizzando, può essere compreso nella realtà più estesa dell’unione mistica tra Dio e gli uomini che si fonda sull’umanizzazione del primo e sulla divinizzazione (theosis) dei secondi. Ecco che cattolicità, chiese riformate e ortodossia possono trovare e ritrovare, nelle proprie e altrui prospettive, un quadro teologico il più comprensivo possibile del dinamismo salvifico attuato dall’autorivelazione-donazione di Dio.
Kallistos Ware (1934), inglese, teologo, anglicano che ha conosciuto da vicino la chiesa ortodossa russa, passato in seguito alla chiesa greca ortodossa, ordinato sacerdote prima, vescovo poi (titolare di Diokleia e assistente di Thyateira e Gran Bretagna) offre il suo contributo di cui si trova buona esposizione, in uno stile molto fruibile, in La rivelazione della persona. Dall’individuo alla comunione (Lipa 2017, 206 pp.).
Ebbene, Ware espone il punto di vista ortodosso sulla salvezza in termini: «personali», essa è la persona viva di Cristo stessa; di «compartecipazione o identificazione», la perichoresis tra la vita di Dio e quella degli uomini; di «realtà ecclesiale», di comunione con gli altri membri del corpo di Cristo; «cosmici», non dal mondo ma col mondo.
Tralasciamo qua gli ultimi due punti. Degno di nota è la messa in rilievo dell’aspetto della «realtà personale» come nota primaria che dice la salvezza, e dato che, come ci dice la teologia trinitaria, “persona” dice “relazione”, si può concludere che la salvezza non solo si dà nelle ma, più precisamente, è relazione tra persone. Ad ogni modo, il rapporto tra i primi due punti sembra sollevare difficoltà. Il primo suggerisce la concezione di un’unione Dio-uomini a livello personale, ipostatica; il secondo – contestualmente al quale Ware sottolinea che l’oriente ne esprime una comprensione «massimalista» – è spiegato mediante la dottrina palamita delle energie divine, eterne, increate, da concepire anch’esse in termini personali, «Dio stesso nella sua azione personale». L’unione tra Dio e gli uomini non avviene pertanto secondo l’essenza, propria solo delle Persone Divine; non secondo l’ipostasi, l’unione delle due nature in Cristo nell’atto incarnatorio; ma secondo le energie che preservano l’assoluta trascendenza di Dio e al contempo la sua assoluta esperibilità da parte degli uomini.
In tale quadro, Ware, collocandosi pienamente nel pensiero ortodosso, offre una visione che dà molto risalto al dato delle energie divine mostrando, al contempo, come esse realizzino un’unione personale, una situazione interpersonale divino-umana.
Il modello di unione Dio-uomo compreso sul piano ipostatico come, secondo alcuni, è il caso, in campo cattolico, di Agostino («in illo Christus sumus») e, in campo ortodosso, di Zizioulas, solleva l’obiezione secondo la quale «santificata e “divinizzata”, la persona umana mantiene ancora la sua identità personale, e non è inghiottita o assorbita nell’abisso del divino». Affrontando il mistero trinitario e cercando di coglierne il nesso col mistero dell’uomo, al fine di delineare, di quest’ultimo, la sua costituzione ontologica, Ware focalizza il punto centrale che desume da Basilio il Grande, Agostino e, soprattutto, Riccardo di San Vittore: Dio è comunione e, più precisamente, «amore reciproco e condiviso». La reciprocità dice il volto dell’amore tra Padre e Figlio, e la condivisione dice la terzietà del volto di tale reciprocità, lo Spirito Santo. Tale amore reciproco e condiviso si estende alla creazione, o, meglio, in tale estensione il primo crea la seconda e la crea secondo il suo proprio dinamismo intrinseco. Osserva Ware, riprendendo Basilio di Ivíron, il «come noi» di Gv 17,22 è un «come trinitario», l’unico e vero «modo di vita» di Dio e degli uomini, sul piano ontologico e pertanto anche come «programma sociale». L’unità presentata da Ware dice dunque, da un lato, il dato ontologico qualificante dell’identità di ogni soggetto, divino come umano; dall’altra, essa è colta come un’unità relazionale per cui «la mia unità personale si compie nella comunità». Il contenuto dell’identità di un «io» è un «noi» e ciò inteso in modo «massimalista», ontologico, e quindi anche morale, certo non metaforico.
Colta l’unità relazionale, e quindi interpersonale, come categoria ontologica dell’essere personale di Dio, da un lato, e dell’uomo, dall’altro, si tratta di stabilire in che modo essa possa trovare realizzazione nel caso della relazione Dio-uomo. È qui che si situa la riflessione sulle energie divine e in cui manifesta la sua intelligenza teologica. Innanzitutto, l’energia è energia dell’essenza e, in qualche modo, la prima porta la seconda, come osserva Ware riprendendo le parole di Palamas: «Dio è interamente presente in ciascuna delle sue energie divine». Ancor di più, si può affermare che una data essenza è in quanto si dice, tanto più nel caso di Dio (e con i dovuti distinguo nel caso dell’uomo) eterno dinamismo di «amore reciproco e condiviso», in cui la “condivisione” è dato ontologico. Ecco che la relazione che Dio stabilisce con gli uomini non può che avvenire secondo le energie divine e costituisce una reale unione interpersonale.
Le riflessioni di Ware suggeriscono, quindi, come il principio ontologico dell’unità relazionale svelato dalla vita trinitaria, la dottrina paolina dell’«incorporazione» degli uomini a Cristo e della «reciproca identificazione» tra i due soggetti che rende i primi figli nel Figlio, e ciò mediante l’economicità delle energie divine, sveli più compiutamente la vita trinitaria, la sua relazione con ciò che è altro da sé, sveli il Cristo come «uomo totale» (Bulgakov) e permetta di mostrare come ogni ipostasi creata trovi nell’unione con le ipostasi divine la condizione di possibilità per il compimento della sua identità di «mikrotheos» e quindi «microcosmo» e «mediatore».
Con ciò è rinvenuto su un piano trinitario-antropologico il dato cristologico di Calcedonia: massima unione (personale, mediante l’economicità delle espressioni personali, le energie divine) e massima distinzione (trascendenza di Dio e creaturalità dell’uomo), come Lossky aveva giustamente osservato: «si rimane creatura pur diventando Dio per grazia, come il Cristo è rimasto Dio divenendo uomo nell’incarnazione».
Il nodo teologico di come vada intesa la relazione tra realtà increata e realtà creata, tale che dia risalto al significato e al valore della distinzione nella realtà dell’unione, è questione non certo chiusa e cara tanto all’oriente con la dottrina delle energie divine, quanto all’occidente, come gli studi condotti, ad esempio, da Lonergan, Doran, Ormerod, a partire dall’analisi della coscienza intenzionale e che fanno tesoro del contributo di Agostino e Tommaso d’Aquino, intendono mostrare.