di Carlo Nardi • San Martino non era il tipo del vescovo da sgonnellare a corte. Aveva interrotto bruscamente e, a quanto pare, a suo rischio e pericolo una promettente carriera militare per farsi discepolo di Ilario di Poitiers, quel vescovo che aveva detto di temere gl’imperatori che ricoprivano d’oro la Chiesa più dei persecutori come Nerone o Diocleziano: guardarsi insomma da coloro che stuzzicano la pancia più che da quanti bastonano il groppone, come aveva scritto curiosamente sant’Ilario.
L’imperatore Massimo, da poco acclamato dalle truppe in Britannia e poi passato in Gallia per acquartierarsi in Treviri, mentre Graziano, il precedente sovrano, veniva candidamente fatto fuori, volle Martino a un banchetto a motivo della sua notorietà. Il vescovo obiettava al novello augusto i modi con cui era salito al potere. Quest’ultimo ribatteva che il suo successo non era senza una permissione divina e riuscì a strappargli l’invito. Anche la pia imperatrice aveva insistito perché il vescovo si lasciasse servire a mensa da lei stessa. Non di meno nella solenne mensa Martino non si peritò a passare una coppa onorifica a un suo prete segretario prima che all’imperatore.
Martino intendeva accettarne il potere come un puro dato di fatto? Di fatto il sospettato augusto aveva tutto l’interesse a far intendere che quella presenza episcopale era – come dire? – una spennellata d’acqua santa sul recenti trascorsi. Martino non la intendeva così.
Ritorna da Massimo per salvare la vita all’eretico Priscilliano, vescovo di Avila, e ai suoi seguaci: era giusta, per lui, la scomunica e la rimozione dall’ufficio, ma contestava che si intromettesse lo stato a infliggere la pena – e la pena di morte -, come invece insistevano molti altri colleghi spagnoli, capeggiati da un tale Itacio. Massimo pressato dagli interventisti cedette, e poi era anche il modo per ingraziarsi una discreta fetta di episcopato. Priscilliano fu giustiziato, mentre su Martino si spargeva la voce malevola che fosse in combutta con gli eretici.
E si capisce da chi. Martino torna a corte per mettere i suoi buoni uffici a ché il sovrano mon eliminasse due ufficiali dello staff del precedente imperatore Graziano e non attivasse un’epurazione cruenta di priscillianisti, caldeggiata seppur indirettamente da Itacio e compagni. Martino riuscì a convincere Massimo ad una condizione voluta dal sovrano: che Martino si mettesse in comunione con Itacio e il suo partito. Martino si limita ad assistere all’ordinazione d’un vescovo della cerchia di Itacio, non tra i peggiori. Il tutto però gli doveva essere sullo stomaco. Sulla via del ritorno ebbe bisogno di appartarsi ad esaminare la sua coscienza dilaniata tra i pro e i contra, tra motivi di rimorso e spiragli d’aver agito bene. Gli sarebbe apparso un angelo: gli avrebbe detto di riprendere cammino e le forze spirituali per non mettere a rischio la sua salvezza eterna. Fatto sta che da allora in poi Martino visse più che mai da penitente, in una specie di morte civile.
Il ragazzo Martino con un tratto di spada aveva diviso il mantello, certo delle ragioni del cuore davanti al mendicante infreddolito per immediata carità. Ora, vecchio vescovo, a contatto con gl’intrighi dei potenti, resta, per incerta carità, con un freddo nel cuore più lancinante del gelo che aveva percepito sulla sua pelle nella lontana notte di guardia ad Amiens.