di Alessandro Clemenzia • Un alto senso di gratitudine e un profondo stupore dell’opinione pubblica hanno accompagnato il viaggio in Terrasanta di Papa Francesco. Si è potuto assistere ad una gestualità che è veramente riuscita a generare commozione davanti all’“accadere” di una sempre vera novità nell’oggi della Chiesa. Domenica 25 maggio, nella sede della Delegazione Apostolica di Gerusalemme, si è svolto un incontro del Papa con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, durante il quale è stata firmata una Dichiarazione congiunta, di cui ora si proverà a mettere in luce soltanto qualche aspetto.
È un incontro che segna certamente una tappa nuova del cammino “verso l’unità”, intesa quest’ultima «come comunione nella legittima diversità» (n. 2). Non è un semplice camminare l’uno accanto all’altro, in cui ciascuno, in nome della legittima diversità, si impegna a non calpestare in alcun modo i piedi all’altro, ma di una comunione che in se stessa garantisce la distinzione delle parti che compongono l’unità. Interessante il fatto che sia scritto «soltanto lo Spirito Santo può guidarci» (n. 2): si tratta di una comunione che trova nello Spirito il suo fondamento interpretativo, e proprio per questo risentirà delle caratteristiche che lo stesso Spirito assume nel suo essere tra il Padre e il Figlio: una relazione in persona che più tiene uniti i Due, più li distingue. “Trinità” dice in modo inconfondibile che Dio non è Dio senza l’Altro; un’unità e una comunione all’insegna dello Spirito Santo è una forma di relazione in cui ciascuno non è se stesso senza l’altro, e senza che l’altro si riconosca, in relazione all’uno, costantemente distinto: l’assimilazione a sé dell’altro fuoriesce dalla logica trinitaria. L’unità alla quale si tende è già di per se stessa il riconoscimento pieno di una pluralità che non può andare perduta, ma, anzi, conservata e incrementata.
A partire dall’esperienza di questa teo-logica, Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo hanno scritto senza remora di essere “pienamente consapevoli di non aver raggiunto l’obiettivo della piena comunione” (n. 2), non perché l’una e l’altra continuano a co-esistere, ma probabilmente perché ciascuna ancora non si comprende alla luce dell’altra, per l’altra e nell’altra, al fine di realizzare la preghiera di Cristo: «perché tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21) come il Padre e il Figlio sono uno (cioè distinti, altrimenti Ciascuno, senza l’Altro, cesserebbe di essere Se stesso).
Perché si raggiunga quest’unità nella legittima diversità, è già stato avviato un dialogo teologico, che non è «un mero esercizio teorico, ma un esercizio nella verità e nella carità, che richiede una sempre più profonda conoscenza delle tradizioni gli uni degli altri, per comprenderle e per apprendere da esse» (n. 4). La teologia viene qui svuotata di un inutile concettualismo o nozionismo teorico, per far riaccadere in essa e da essa ciò che realmente è: un esercizio (aschesis, in greco: da cui viene ascesi) nella verità e nella carità, vale a dire sempre “nello Spirito Santo” (come Spirito di verità e carità stessa di Dio). Il cammino allora consiste primariamente nell’esercitarsi ad essere nello Spirito di Dio, perché sia Lui a portarci a quell’unità nella distinzione (attività che Egli stesso svolge in Dio). Proprio per questo, continua la Dichiarazione congiunta, «il dialogo teologico non cerca un minimo comune denominatore teologico sul quale raggiungere un compromesso, ma si basa piuttosto sull’approfondimento della verità tutta intera, che Cristo ha donato alla sua Chiesa» (n. 4). Straordinariamente densa questa affermazione: il dialogo teologico non è riducibile e finalizzato a un compromesso politico e religioso, in cui si aderisce a un concetto (o a un insieme di concetti) posseduto da ciascuno, tale da rendere possibile un’unità di distinti sotto quell’unico e medesimo punto di vista; esso è piuttosto «approfondimento della verità tutta intera», penetrazione in quella realtà verso cui solo lo Spirito (Colui che conduce alla Verità tutta intera) può trans-portare. In altre parole: un dialogo, perché sia teologico, deve introdurre l’uomo in Dio.
Ma perché tutto questo non venga malamente interpretato come un semplice, interiore e soggettivo sforzo mistico, lontano dalla realtà e per i pochi addetti ai lavori, è scritto nella Dichiarazione: «Pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità» (n. 5). Non si può entrare in Dio se non attraverso l’umano, se non ci si lascia “calamitare” dall’uomo. Si potrebbe quasi paradossalmente affermare che si è veramente in cammino verso la piena comunione nel momento in cui ci si mette a servizio dell’uomo, non come se quest’ultimo fosse strumento al fine prefissato, ma come luogo concreto del dirsi e del darsi di Dio nella storia. L’uomo è la periferia di Dio: senza passare attraverso di lui non si può raggiungere il Centro.